Anastasi, Pskov, prima metà del XVI secolo
Il Canone della Domenica di Pasqua
di Roberto Pagani
Se nel cristianesimo occidentale la riscoperta della
Veglia Pasquale è un fenomeno che si può collocare verso la metà del secolo
scorso con la riforma della Settimana Santa ad opera di Pio XII, essa è rimasta
il punto centrale da cui tutto si dipana nel cristianesimo orientale. La
Pasqua, o meglio, la Risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, è la Festa
delle Feste. Nella liturgia bizantina in particolare, se si può dire che ogni
domenica si celebra la risurrezione di Gesù dai morti, e la liturgia delle ore
è decisamente ricolma dell’adeguata innografia, l’intensità che si raggiunge
nella notte pasquale è veramente una esperienza da vivere, difficile da
comprendere per chi ne ha solo sentito parlare o ha avuto modo di leggere
qualcosa al riguardo.
Sarebbe bello descrivere con dovizia di particolari lo
svolgimento del mattutino di Pasqua, che nella tradizione russa viene
generalmente celebrato durante la notte e che si conclude all’alba con la
Divina Liturgia. Riservando questo tipo di lettura ad altra occasione, per il
momento ci soffermeremo su uno dei momenti del Mattutino pasquale, il Canone.
Gli storici della liturgia bizantina ci dicono che, al
suo formarsi, la liturgia delle ore non era particolarmente ricca dal punto di
vista innografico, soprattutto nei monasteri, il cui ufficio era
prevalentemente scritturistico. Le cose cambiano nel corso del VI secolo,
quando alcune composizioni poetiche, i kontàkia,
iniziano ad essere utilizzati. Il più celebre di questi compositori è san
Romano il Melòde, siriano di origine che prestò il suo servizio diaconale in
una città che corrisponde all’odierna Beirut: alcune delle sue composizioni,
seppur in forma molto ridotta, sono tuttora presenti nella tradizione bizantina.
Ma nel secolo successivo, queste composizioni poetiche cedono progressivamente
il posto a nuove composizioni, sicuramente più modeste negli sviluppi poetici,
ma con un contenuto teologico più essenziale. Fino ad allora nei monasteri il
Canone era un lungo inno liturgico costituito da nove odi bibliche che erano
utilizzate già da qualche secolo. Le nuove composizioni poetiche erano
costituite da brevi strofe (chiamate tropari)
che venivano intercalate ai versetti finali di ciascuna delle odi del canone
scritturistico, traendone evidentemente spunto per il tema iniziale. Va da sé
che, più il canone poetico prendeva piede, più velocemente il canone
scritturistico veniva abbandonato, al punto tale che tra una strofa e l’altra
del canone poetico oggi ci sono dei ritornelli che possono variare da una
canone all’altro in base al soggetto del canone stesso. Il canone poetico è
quindi costituito da una prima strofa (irmos) che ha una melodia propria e che
serve da modello per le successive strofe della stessa ode. Tali composizioni,
essendo di natura poetica, sono, almeno nella loro lingua originale (il greco),
strutturate metricamente, in modo che la melodia, accoppiandosi mirabilmente
con il testo, riesca a dare ritmo all’intero canto, rendendo esplicito un
equilibrio sostanziale tra musica e parola che viene teologicamente collegato
al dogma cristologico delle due nature in Cristo, umana e divina, unite senza
confusione e separazione, mescolanza e divisione. La struttura metrica, su cui
le altre strofe della stessa ode sono composte e che ne rende estremamente
facile il canto nel testo greco, si perde, purtroppo, nelle traduzioni nelle
varie lingue. Se per i greci è normale il canto integrale di un canone, presso
i russi ad esempio si canta solo il primo tropario (l’irmos) di ogni ode e i
vari ritornelli, mentre i tropari successivi vengono cantati in una specie di recto tono con alcune limitate varianti.
Il solo fatto che presso i russi il Canone del Mattutino di Pasqua venga
integralmente cantato rende già molto evidente l’eccezionalità del momento. In
effetti il Canone rappresenta il punto focale del Mattutino di Pasqua: l’intera
parte dell’ufficio che negli altri giorni precede il Canone viene omessa, e la
tensione musicale dell’intera composizione sale subito al suo vertice.
Considerato da un punto di vista strettamente musicale, il Canone non è
particolarmente complesso, in quanto consiste da un numero limitato di frasi
variamente articolate ma costantemente ripetute. Laddove possibile, sono i due
i cori che eseguono il canto del canone, alternandosi continuamente nelle varie
strofe di ogni ode, mentre tutto il popolo presente canta il ritornello tra una
strofa e l’altra: “Cristo è risorto dai morti!”, così come il tropario di
Pasqua che si canta tre volte alla fine di ogni ode: “Cristo è risorto dai
morti, con la morte calpesta la morte, e ai morti nei sepolcri fa dono della
vita!”. Alla fine di ogni ode, su una melodia più dolce e quasi come un breve
riposo rispetto alla continua tensione musicale, i due cori insieme ripetono
l’irmos cantato all’inizio. Durante il canto di ogni ode, sacerdote e diacono
incensano tutta la chiesa e ciascun fedele, riempiendo ben presto l’aria del
profumo dell’incenso: sprigionandosi dai carboni ardenti, l’incenso disegna nuvole
di fumo che si illuminano alla luce delle candele che i presenti tengono in
mano accese per tutta la durata del Canone. Al termine dell’incensazione, il
celebrante si rivolge ai fedeli lanciando l’inno della vittoria: “Cristo è
risorto!”, a cui ciascuno risponde con tutta la fede, la gioia e la voce
possibili: “è veramente risorto!”.
Fatta questa necessaria premessa, per chi ha avuto la
costanza di giungere fino a qui, possiamo passare a una lettura del Canone di
Pasqua. Esso è opera di san Giovanni Damasceno, teologo e innografo dell’VIII
secolo cui la Chiesa intera deve davvero tanto. Come già emerso in altre
occasioni, il nostro autore si lascia guidare dalle omelie di un altro grande
Padre della Chiesa: san Gregorio di Nazianzo, che in oriente è conosciuto come
san Gregorio il Teologo. Dopo una sintesi dell’ode scritturistica che serve da
riferimento alla composizione poetica, verranno riportate le strofe di ciascuna
ode, cui seguirà un breve commento che cercherà di evidenziare i numerosi
richiami scritturistici unendoli ad un abbozzo di lettura.
La prima ode si basa sul cantico di Mosè di Es 15,
1-19 «….Voglio cantare in onore del
Signore: perché ha mirabilmente trionfato, ha gettato in mare cavallo e
cavaliere. Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato. È il mio Dio
e lo voglio lodare, è il Dio di mio padre e lo voglio esaltare! Il Signore è
prode in guerra, si chiama Signore. I carri del faraone e il suo esercito ha
gettato nel mare e i suoi combattenti scelti furono sommersi nel Mare Rosso….
Soffiasti con il tuo alito: il mare li coprì, sprofondarono come piombo in
acque profonde. Chi è come te fra gli dei, Signore? Chi è come te, maestoso in
santità, tremendo nelle imprese, operatore di prodigi? Stendesti la destra: la
terra li inghiottì. Guidasti con il tuo favore questo popolo che hai
riscattato, lo conducesti con forza alla tua santa dimora. … per la potenza del
tuo braccio restano immobili come pietra, finché sia passato il tuo popolo,
Signore, finché sia passato questo tuo popolo che ti sei acquistato. Lo fai
entrare e lo pianti sul monte della tua eredità, luogo che per tua sede,
Signore, hai preparato, santuario che le tue mani, Signore, hanno fondato. Il
Signore regna in eterno e per sempre!».
Giorno di risurrezione!
Risplendiamo, popoli. Pasqua, Pasqua del Signore. Dalla morte alla vita e dalla
terra al cielo Cristo, Dio nostro, ci conduce cantando l’inno di vittoria.
Purifichiamo i sensi e
vedremo nella luce inaccessibile della risurrezione il Cristo sfolgorante che
ci dice: rallegratevi! Lo udremo chiaramente, cantando l’inno di vittoria.
I cieli esultino in modo
degno, la terra si rallegri; festeggi l’universo intero, visibile ed
invisibile: Cristo è risorto! Eterna esultanza.
L’Esodo è l’evento fondante la fede di Israele, lì il
Signore si è manifestato, ha steso il suo braccio, ha strappato il suo popolo
dalla schiavitù egiziana per condurlo verso la libertà, lo ha fatto nascere a
vita nuova passando dal non essere all’essere popolo di YHWH. È YHWH che passa,
e nel suo passaggio fa passare Israele. Così la Pasqua è la Pasqua del Signore,
perché Cristo risorto ci fa passare con lui dalla morte alla vita, verso la
patria celeste così come Israele entrò nella terra promessa. San Paolo, in 1Tim
6, 14-16 ci esorta ad attendere senza macchia “fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo
stabilito sarà a noi rivelata dal beato e unico sovrano, il re dei regnanti e
signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità, che abita una luce
inaccessibile; che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere”;
quindi, con la purificazione battesimale della dinamica morte-risurrezione,
possiamo accedere alla luce della risurrezione nella quale Cristo appare (si
manifesta, dal vocabolo greco utilizzato epifanias
nel v. 14) sfolgorante. È il compimento della luce taborica, cui partecipa il
cosmo visibile ed invisibile, cielo e terra, ricevendo la luce del Risorto. In
Is 49, 13 la gioia era per il ritorno del popolo dall’esilio: Giubilate, o cieli; rallegrati, o terra,
gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha pietà
dei suoi miseri, qui si canta la vittoria sul male, cielo e terra non sono
più contrapposti, la gioia è senza fine!
La seconda ode del canone (Dt 32, 1-43) viene quasi
sempre omessa: avendo un carattere prevalentemente penitenziale, la si trova
soprattutto nel tempo quaresimale.
La terza ode del canone è basata sulla preghiera di
Anna, madre di Samuele (1 Re 2, 1-10 nella versione LXX, 1 Sam 2, 1-10 nella
versione CEI): Allora Anna pregò: Il mio
cuore esulta nel Signore, la mia fronte s’innalza grazie al mio Dio. … Non c’è
santo come il Signore, non c’è rocca come il nostro Dio. Non moltiplicate i
discorsi superbi, dalla vostra bocca non esca arroganza; perché il Signore è il
Dio che sa tutto e le sue opere sono rette. … Il Signore fa morire e fa vivere,
scendere agli inferi e risalire. Il Signore rende povero e arricchisce, abbassa
ed esalta. Solleva dalla polvere il misero, innalza il povero dalle immondizie,
per farli sedere insieme con i capi del popolo e assegnar loro un seggio di
gloria. Perché al Signore appartengono i cardini della terra e su di essi fa
poggiare il mondo. Sui passi dei giusti Egli veglia, ma gli empi svaniscono
nelle tenebre. Certo non prevarrà l’uomo malgrado la sua forza. Il Signore...
saranno abbattuti i suoi avversari! L’Altissimo tuonerà dal cielo. Il Signore
giudicherà gli estremi confini della terra; darà forza al suo re ed eleverà la
potenza del suo Messia.
Venite beviamo una bevanda
nuova miracolosamente sgorgata non dalla pietra sterile ma dal sepolcro di
Cristo, fonte di incorruttibilità: in esso stiamo saldi.
L’universo intero di luce si
ricolma: cielo e terra, e tutte le profondità! Festeggia tutta la creazione il
risorgere di Cristo: in esso stiamo saldi.
Ieri ero sepolto con te, o
Cristo, oggi io risorgo con te che sei risorto; crocifisso ieri con te,
glorificami, Salvatore, nel tuo regno.
In Mt 26, 29 Gesù aveva promesso: “Io vi dico: non berrò d’ora innanzi di questo frutto della vite, fino
a quel giorno quando lo berrò con voi nuovo nel regno del Padre mio”. Oggi
possiamo bere la bevanda nuova ed inebriante che sgorga del sepolcro vuoto di
Cristo risorto, così come Mosè, in Es 17, 6, aveva fatto sgorgare l’acqua dalla
roccia nel deserto seguendo l’ordine di Dio: “Ecco, io sto davanti a te, là sulla roccia, sull’Oreb: colpirai la
roccia e ne uscirà acqua. Il popolo berrà”. Nella sua prima lettera ai
Corinzi (1 Cor 10, 1-4), san Paolo paragona la mistagogia cristiana
all’esperienza di Israele nel deserto: Non
voglio infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto
la nuvola, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a
Mosè nella nuvola e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti
bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale
che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Non è più una pietra
sterile, destinata a non generare, ma è una roccia su cui possiamo fondare la
nostra vita, pronunciare il nostro Amen, renderla feconda aprendo ogni istante
delle nostre giornate all’eternità del tempo del Risorto. Da Ef 4, 10 sappiamo
che: Colui che discese è il medesimo che
anche salì al di sopra di tutti i cieli per riempire l’universo. La luce
del Risorto penetra ormai in ogni luogo, anche nelle profondità degli inferi,
perché le tenebre della morte sono vinte per sempre. Il male non è sparito,
resterà fino all’ultimo giorno, ma è ormai impotente, perché l’ultima parola
non è più la sua. Ogni cosa riceve contorni nuovi quando è illuminata dalla
luce pasquale, è trasfigurata, e chi ha purificato i suoi occhi con le lacrime
del pentimento durante il cammino quaresimale può scorgere un mondo nuovo, che
partecipa della festa comune. Nella lettera ai Romani (Rm 6, 3-11) Paolo
ammonisce: O non sapete che quanti siamo
stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per
mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte,
perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre,
così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati
completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la
sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso
con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più
schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se
siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo
risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per
quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora
invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi
morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù. Nell’oggi liturgico
siamo chiamati a condividere (il prefisso syn
è veramente coinvolgente!) crocifissione, morte, sepoltura e risurrezione di
Gesù: è il nostro uomo vecchio che viene crocifisso, ma è il nostro uomo nuovo
che accetta volontariamente di salire sulla croce per donarsi agli altri, che
muore per far fruttificare il seme, che marcisce nella terra del sepolcro per
poter rinascere a nuova esistenza.
La quarta ode è la preghiera del profeta Abacuc (Ab 3,
2-19): Signore, ho ascoltato il tuo
annunzio, ho avuto timore della tua opera. Nel corso degli anni manifestala,
falla conoscere nel corso degli anni. Nello sdegno ricordati di avere clemenza.
Dio viene da Teman, il Santo dal monte Paràn. La sua maestà ricopre i cieli,
delle sue lodi è piena la terra. Il suo splendore è come la luce, bagliori di
folgore escono dalle sue mani: là si cela la sua potenza. …. Sei uscito per
salvare il tuo popolo, per salvare il tuo consacrato. Hai demolito la cima
della casa dell’empio, l’hai scalzata fino alle fondamenta. Con i tuoi dardi
hai trafitto il capo dei suoi guerrieri che irrompevano per disperdermi con la
gioia di chi divora il povero di nascosto. …. Ma io gioirò nel Signore,
esulterò in Dio mio salvatore. Il Signore Dio è la mia forza….
In questa veglia divina il
profeta di Dio, Abacuc, con noi rimanga e ci mostri l’angelo che risplendendo
dirà: Oggi è la salvezza del mondo, poiché Cristo è risorto perché è
l’Onnipotente.
Come un maschio che apre un
seno verginale, è apparso Cristo come uomo, è chiamato Agnello, senza difetto
perché privo di colpa, Lui, la nostra Pasqua, e come Dio vero è proclamato
perfetto.
Come agnello di un anno,
Cristo la nostra corona benedetta, si è immolato volontariamente per tutti,
Pasqua purificatrice, e di nuovo risplende dal sepolcro per noi, splendido sole
di giustizia.
Davide, progenitore di Dio,
ha danzato con giubilo davanti all’arca, che era solo un’ombra; ma noi, popolo
santo di Dio, vedendo realizzarsi le figure, godiamo di divina letizia, poiché
Cristo è risorto perché è l’Onnipotente.
In Ab 2, 1a il profeta dice: Mi metterò di sentinella, in piedi sulla fortezza: anche noi stiamo
vegliando in attesa dell’angelo che reca l’annuncio della salvezza, poiché oggi
si realizza l’evento fondante la nostra fede. In Lv 22, 18b-33 troviamo la
descrizione di come debba essere il sacrificio offerto a Dio per essere
gradito: «Chiunque della casa d’Israele o
dei forestieri dimoranti in Israele presenta in olocausto al Signore un’offerta
per qualsiasi voto o dono volontario, per essere gradito, dovrà offrire un
maschio, senza difetto, di buoi, di pecore o di capre. Non offrirete nulla con
qualche difetto, perché non sarebbe gradito. Se uno offre al Signore, in
sacrificio di comunione, un bovino o un ovino, sia per sciogliere un voto, sia
come offerta volontaria, la vittima, perché sia gradita, dovrà essere perfetta:
senza difetti. ….. Quando offrirete al Signore un sacrificio di ringraziamento,
offritelo in modo che sia gradito. La vittima sarà mangiata il giorno stesso;
non ne lascerete nulla fino al mattino. Io sono il Signore. Osserverete dunque
i miei comandi e li metterete in pratica. Io sono il Signore. Non profanerete
il mio santo nome, perché io mi manifesti santo in mezzo agli Israeliti. Io
sono il Signore che vi santifico, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto per
essere vostro Dio. Io sono il Signore». Ci sono anche i paralleli di Es 13,
2 «Consacrami ogni primogenito che apre
il grembo tra i figli d’Israele: uomo e animale sono miei» e di Es 13, 12 riserverai per il Signore ogni essere che apre
il grembo e ogni parto dell’animale che avrai: i maschi sono del Signore,
ripresi da Lc 2, 23 nel racconto della Presentazione al tempio di Gesù: come sta scritto nella legge di Mosè: Ogni
maschio primogenito sarà considerato sacro al Signore. San Pietro associa
esplicitamente il sangue versato da Gesù sulla croce al sangue dell’agnello
immolato (1 Pt 1, 19): ma per mezzo del sangue prezioso di Cristo, che ha
svolto la funzione di agnello puro e senza macchia, mentre invece san Paolo
associa l’immolazione di Cristo all’altro modo di celebrare la pasqua ebraica,
cioè la tradizione degli azzimi (1 Cor 5, 7): Purificatevi del vecchio lievito, per essere una nuova pasta, come già
siete senza lievito. Poiché anche la nostra Pasqua, cioè Cristo, è stata
immolata.
Cristo è la nostra Pasqua, è l’agnello che viene
presentato a Dio per la purificazione di tutti e il cui sangue, oltre che
sull’altare, viene asperso sul nuovo popolo dell’alleanza: si è manifestato
nella carne, si è fatto uomo, maschio primogenito di una madre vergine, e il
suo essere senza peccato lo rende perfetto ai fini del sacrificio gradito al
Padre. Gesù viene paragonato all’agnello integro di un anno che in Es 12, 5
viene indicato come il più adatto per celebrare il passaggio del Signore tra le
case degli egiziani, ma l’immolazione di Cristo non è subita, è volontaria; lui
corona l’anno con i suoi benefici (Sal
64, 12), e nel suo sacrificio ottiene la purificazione per tutti. Dal sepolcro
spalancato sorge come splendido sole di giustizia, così come era stato cantato
nel tropario di Natale, ad illuminare tutto con la luce della sua risurrezione.
Quando Davide trasportò l’arca a Gerusalemme danzò con gioia intorno ad essa (2
Sam 6, 16), e Nicodemo l’Aghiorita, un monaco del Monte Athos vissuto nel XVIII
secolo, commentando il canone pasquale diceva che l’arca, caduta in preda ai
nemici per i peccati del popolo e poi restituita a Davide, eletto da Dio,
liberatore del popolo, era la figura del Corpo di Cristo, morto, sepolto, e
risorto.
La quinta ode è costituita dalla preghiera di Isaia
(Is 26, 9-20): La mia anima anela a te di
notte, al mattino il mio spirito ti cerca, perché quando pronunzi i tuoi
giudizi sulla terra, giustizia imparano gli abitanti del mondo. Signore, ci concederai
la pace, poiché tu dài successo a tutte le nostre imprese. Signore nostro Dio,
altri padroni, diversi da te, ci hanno dominato, ma noi te soltanto, il tuo
nome invocheremo. I morti non vivranno più, le ombre non risorgeranno; poiché
tu li hai puniti e distrutti, hai fatto svanire ogni loro ricordo. Hai fatto
crescere la nazione, Signore, hai fatto crescere la nazione, ti sei
glorificato, hai dilatato tutti i confini del paese. Signore, nella
tribolazione ti abbiamo cercato; a te abbiamo gridato nella prova, che è la tua
correzione. …. Ma di nuovo vivranno i tuoi morti, risorgeranno i loro cadaveri.
Si sveglieranno ed esulteranno quelli che giacciono nella polvere, perché la
tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre.
Vegliando al primo
albeggiare, al posto degli aromi offriamo al Signore i nostri canti, e vedremo
Cristo, sole di giustizia, che la vita per tutti fa sorgere.
Vedendo la tua misericordia
incommensurabile, i prigionieri dell’ade corsero verso la luce, o Cristo, con passo
esultante, lodando la Pasqua eterna.
Con le nostre lampade andiamo
incontro al Cristo che come uno sposo esce dal sepolcro, e con le schiere
celebriamo festanti la Pasqua salvifica di Dio.
La celebrazione di questo mattutino ben si sposa con l’inizio
del brano di Isaia; siamo nel cuore della notte, la luce non è quella naturale,
e questo consente al fedele di percepire sensibilmente come la luce di Pasqua
sia qualitativamente nuova: il desiderio dell’incontro con il Risorto illumina
tutto il mondo. Le donne mirofore (così sono chiamate dalla tradizione
bizantina coloro che, secondo Lc 24, 1, si recarono al sepolcro di buon mattino
portando gli aromi per ungere il corpo di Gesù dopo la affrettata sepoltura
della vigilia del sabato) prevennero l’aurora come chi brama il giorno, e noi,
nella nostra veglia, al posto della mirra offriamo i nostri canti al Signore,
in questo nostro desiderio di correre incontro a Cristo. Il profeta Malachia
(Ml 3, 20a) dice: Per voi che temete il
mio nome spunterà il sole di giustizia, con raggi radiosi, così iniziamo a
correre verso l’incontro nella certezza che le tenebre esteriori sono vinte da
colui che, facendo splendere il sole sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5, 45),
rivela il suo vero volto nell’amore come dono di sé, amore che diviene il
criterio della vita rinnovata. Non è principalmente il sole che con la sua luce
fa essere le persone e le cose, ma è Cristo che le illumina dal di dentro,
facendo emergere ovunque il suo volto, la sua presenza. Mi avvolsero vincoli infernali, mi avvinsero lacci di morte (Sal
18, 6), ma anche negl’inferi si può cogliere questa presenza, perché Cristo vi
è disceso per liberare i prigionieri
(Sal 145, 7), per dire ai carcerati:
“Uscite”, e a quanti si trovano nelle tenebre: “Venite fuori” (Is 49, 9a).
Sempre Isaia (Is 42, 6) dice Io, il
Signore, ti ho chiamato nella giustizia e ti ho afferrato per mano, ti ho
formato e ti ho stabilito alleanza di popolo e luce delle nazioni: anche
dagli inferi si può scorgere la luce del Risorto anzi, forse proprio da lì si
può cogliere meglio la sua misericordia che sfugge a ogni capacità di
comprensione tanto è dilatata verso l’infinito, le sue braccia spalancate sulla
croce ora ci afferrano per mano. La parabola delle dieci vergini (Mt 25, 1-13)
era stata uno dei temi dominanti del martedì santo, e ora il nostro paragone
con loro non giunge del tutto “casuale”: come già detto, ogni fedele durante
tutto il mattutino ha un cero acceso in mano, quindi l’identificazione con le
vergini sagge, che hanno saputo conservare l’olio della virtù fino al momento
in cui giunge lo sposo, viene liturgicamente interiorizzata volgendo il nostro
sguardo verso colui che come uno Sposo esce dal sepolcro.
La sesta ode è tratta dalla preghiera di Giona (Gio
2,3-10), i cui tre giorni passati nel ventre del pesce che lo aveva inghiottito
sono figura dei tre giorni passati da Gesù nella tomba: Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito; dal
profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce. Mi hai gettato
nell’abisso, nel cuore del mare e le correnti mi hanno circondato; tutti i tuoi
flutti e le tue onde sono passati sopra di me. Io dicevo: Sono scacciato
lontano dai tuoi occhi; eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio. … Ma tu
hai fatto risalire dalla fossa la mia vita, Signore mio Dio. Quando in me
sentivo venir meno la vita, ho ricordato il Signore. La mia preghiera è giunta
fino a te, fino alla tua santa dimora. Quelli che onorano vane nullità
abbandonano il loro amore. Ma io con voce di lode offrirò a te un sacrificio e
adempirò il voto che ho fatto; la salvezza viene dal Signore.
Sei disceso nelle profondità
della terra, spezzando gli eterni legami che incatenavano i prigionieri, o
Cristo, e dopo tre giorni come Giona dal pesce sei risorto dalla tomba.
Sei risorto dal sepolcro o
Cristo, serbandone intatti i sigilli, tu che alla tua nascita non violasti il
seno della Vergine: hai aperto per noi le porte del paradiso.
Mio Salvatore, vittima
vivente e non immolabile, volontariamente come Dio ti sei offerto al Padre, e
risorgendo dalla tomba tutta la stirpe di Adamo fai risorgere.
Il collegamento dei tre giorni di Giona con quelli di
Gesù è riportato da Mt 12, 40 Poiché,
come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo
starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti. Il terzo giorno
nell’Antico Testamento era perlopiù considerato il giorno della liberazione,
della vittoria sulla schiavitù della morte dopo un periodo di difficoltà, di
tentazione, di prova, di crisi; tanti sono i riferimenti possibili: Os 6, 1-2,
il sacrificio di Isacco (Gn 22, 4), Giuseppe che libera i suoi fratelli (Gn 42,
18), l’alleanza del Sinai (Es 19, 11.15-16), così come Est 5, 1; 2 Sam 1,2; 1
Re 12, 12; 2 Re 20, 5.8, Esd 8, 32, e altri ancora. L’iniziativa di Dio nella
storia umana salva chi si affida alla sua volontà, non lascia il giusto nella
tribolazione e nella morte, ma lo richiama alla vita, lo rialza, lo fa risorgere.
L’icona della risurrezione mostra Cristo che abbatte le porte degli inferi
(riprendendo l’immagine di Sal 106, 16 poiché
infranse le porte di bronzo, mandò in frantumi le sbarre di ferro, oppure
di Is 45, 2 Io marcerò davanti a lui,
appianerò i pendii, distruggerò le porte di bronzo e spezzerò le sbarre di
ferro) e richiama alla vita Adamo ed Eva; dietro a loro ci sono i
Patriarchi, i Re, i Profeti, tutti i giusti dell’antichità che attendevano
questo giorno. Il movimento di discesa di Cristo è una irruzione dinamica che
sconvolge la realtà e la attrae a sé: i morti si rialzano come catalizzati
dalla potenza del morto che è stato risuscitato da Dio. San Paolo ci dice (Ef
4, 9): Ora, questo “è salito” che cosa
vuol dire se non che egli era anche disceso nelle parti più basse della terra?
I capi dei sacerdoti e i farisei, per timore che
qualcuno rubasse il corpo di Gesù, andarono
ad assicurare il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia (Mt
27, 66), così che le mirofore, andando al sepolcro, si interrogavano: «Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso
del sepolcro?». Ma, guardando, videro che il masso era già stato rotolato
via, benché fosse molto grande (Mc 16, 3-4). È noto che gli evangelisti non
descrivono il come sia avvenuta la risurrezione, quindi anche noi dobbiamo
rispettosamente fermarci a un prima e un dopo, ma è sempre possibile notare il
parallelo con la nascita di Gesù dalla Vergine Maria, riprendendo ad esempio la
profezia di Ezechiele (Ez 44, 2) Questa
porta resterà chiusa, non deve restare aperta; nessuno vi deve passare perché
c’è passato il Signore, il Dio d’Israele; deve restare chiusa. La croce di
Gesù, come già sottolineato nella riflessione della terza domenica di
Quaresima, ha tolto di mezzo il serafino che con la sua spada fiammeggiante
stava a guardia delle porte del paradiso, così ora Cristo risorto vi conduce
gli uomini dopo averli presi per mano nella sua discesa agli inferi: Salito in alto, egli ha portato con sé dei
prigionieri e ha fatto dei doni agli uomini (Ef 4, 8).
Il nostro Salvatore è Dio dei vivi, non dei morti, ed
essendo vivo è una vittima non immolabile; ma è anche vero che questa
immolazione volontaria è offerta dal Figlio al Padre, un Padre pieno di amore
per l’uomo che egli stesso aveva creato: non abbiamo di fronte un nemico
vincitore da soddisfare o un Dio vendicativo che abbia bisogno di chissà quale
riscatto, ma un Dio che ha scelto, nel suo “folle” amore per la stirpe di
Adamo, la condivisione estrema, fino alla morte, e alla morte di croce, per far
risorgere tutti con lui.
La settima ode si basa sulla preghiera dei tre
fanciulli nella fornace (Dn 3, 26-56): “Benedet-to
sei tu, Signore Dio dei nostri padri; degno di lode e glorioso è il tuo nome
per sempre. Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto; tutte le tue opere sono
vere, rette le tue vie e giusti tutti i tuoi giudizi. Giusto è stato il tuo
giudizio per quanto hai fatto ricadere su di noi e sulla città santa dei nostri
padri, Gerusalemme. Con verità e giustizia tu ci hai inflitto tutto questo a
causa dei nostri peccati, poiché noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui,
allontanandoci da te, abbiamo mancato in ogni modo. Non abbiamo obbedito ai
tuoi comandamenti, non li abbiamo osservati, non abbiamo fatto quanto ci avevi
ordinato per il nostro bene. ….. Ora non abbiamo più né principe, né capo, né
profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per
presentarti le primizie e trovar misericordia. ….. Tale sia oggi il nostro
sacrificio davanti a te e ti sia gradito, perché non c’è confusione per coloro
che confidano in te. Ora ti seguiamo con tutto il cuore, ti temiamo e cerchiamo
il tuo volto. Fa’ con noi secondo la tua clemenza, trattaci secondo la tua benevolenza,
secondo la grandezza della tua misericordia. Salvaci con i tuoi prodigi, dà
gloria, Signore, al tuo nome. ….. La fiamma si alzava quarantanove cubiti sopra
la fornace e uscendo bruciò quei Caldei che si trovavano vicino alla fornace.
Ma l’angelo del Signore, che era sceso con Azaria e con i suoi compagni nella
fornace, allontanò da loro la fiamma del fuoco e rese l’interno della fornace
come un luogo dove soffiasse un vento pieno di rugiada. Così il fuoco non li
toccò affatto, non fece loro alcun male, non diede loro alcuna molestia. Allora
quei tre giovani, a una sola voce, si misero a lodare, a glorificare, a benedire
Dio nella fornace dicendo: Benedetto sei tu, Signore, Dio dei padri nostri,
degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto il tuo nome glorioso e santo,
degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto sei tu nel tuo tempio santo glorioso,
degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto sei tu nel trono del tuo regno,
degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto sei tu che penetri con lo
sguardo gli abissi e siedi sui cherubini, degno di lode e di gloria nei secoli.
Benedetto sei tu nel firmamento del cielo, degno di lode e di gloria nei secoli”.
Colui che salvò i fanciulli
dalla fornace, fattosi uomo, soffre come un mortale, e con la sua passione
riveste la natura mortale di splendore incorruttibile; il solo benedetto, il
Dio dei Padri, gloriosissimo.
Le donne ricolme di saggezza
con unguenti corsero da te, ma esultanti adorarono come Dio vivo quello stesso
che prima come morto tra le lacrime cercavano, e la Pasqua mistica, ai tuoi
discepoli, o Cristo, annunciarono.
Festeggiamo la disfatta della
morte, la distruzione degli inferi, l’inizio di un’altra vita, quella eterna,
ed esultanti cantiamo colui che ne è la causa, il solo benedetto, il Dio dei
Padri, gloriosissimo.
Sacra e solenne è questa
notte salvifica e luminosa, che preannuncia il giorno fulgido della risurrezione,
nel quale la Luce che non ha principio ha rifulso su tutti col suo corpo.
Paolo, nella sua prima lettera ai Corinzi, ci dice: Questo corpo corruttibile deve rivestire
l’incorruttibilità e questo corpo mortale rivestire l’immortalità, (1Cor
15, 53). Questa trasformazione avviene attraverso la sofferenza e la passione,
nella quale Dio stesso, nella inscindibile unità divino-umana di Gesù di Nazaret,
soffre come un mortale. È opportuno rilevare che la simbologia battesimale
della triplice immersione totale del battezzando nell’acqua, con la conseguente
riemersione, volendo esprimere la morte dell’uomo vecchio e la risurrezione
dell’uomo nuovo, porta i neobattezzati ad indossare la veste bianca, veste di
incorruttibilità, che porteranno per tutta l’ottava di Pasqua. Essi hanno
ricevuto la santa Illuminazione, sono gli illuminati, e dalla loro candida
veste rifulge la luce della risurrezione, della loro rinascita in Cristo.
Le mirofore questa volta vengono associate alle
fanciulle che corrono incontro al loro amato: I tuoi profumi sono soavi a respirare, aroma che si effonde è il tuo
nome: per questo ti amano le fanciulle. Attirami a te, corriamo! Fammi entrare,
o re, nelle tue stanze: esulteremo e gioiremo per amore tuo, celebreremo i tuoi
amori più che il vino. Come a ragione ti si ama! (Ct 1, 3-4). Sono loro a
ricevere l’annuncio della risurrezione dall’angelo (Mt 28, 6-9): il morto che
cercavano non è più lì, è risorto come aveva predetto, e il loro compito è
quello di dare il lieto annuncio ai discepoli. Quando Gesù risorto appare alle
mirofore, immediatamente lo riconoscono e lo adorano, a differenza degli stessi
apostoli che hanno una reazione che in alcuni di loro rasenta addirittura il
dubbio (Mt 28, 17).
Per cogliere secondo una prospettiva particolare la
disfatta della morte che viene festeggiata si potrebbe fare riferimento alle
strofe che vengono cantate al Lucernario della Vigilia di Pasqua, dove vediamo
l’inferno personificato che, rendendosi conto della portata cosmica della morte
di Gesù, non può che assistere impotente alla distruzione del suo regno che
durava da secoli, allo svuotamento totale dei sepolcri: pensava di aver
trionfato accogliendo Dio come uno dei
mortali, ma tutti Lui li fa risorgere! È questa la vita nuova che inizia,
una vita che non è semplicemente la prosecuzione biologica di quella di prima,
ma che ha in sé la dimensione dell’ottavo giorno. Ritorna il tema della luce,
accostando il tema della notte come preludio del fulgido giorno della
risurrezione a quello della Luce increata, quella che non ha principio, che si
sprigiona dal corpo glorioso di Gesù risorto. È la stessa Luce del Tabor, che
Pietro, Giacomo e Giovanni avevano potuto pregustare per comprendere che la
passione di Cristo era volontaria, e che ora è offerta a tutti.
L’ottava ode è il cantico dei tre fanciulli nella
fornace (Dn 3, 57-87), prosecuzione del testo scritturistico dell’ode
precedente: «Benedite, opere tutte del
Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli. Benedite, angeli del
Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli. Benedite, cieli, …
acque tutte, che siete sopra i cieli, … potenze tutte del Signore,…. sole e
luna, … stelle del cielo, … piogge e rugiade, … venti tutti, … fuoco e calore,
… freddo e caldo, … rugiada e brina, …. gelo e freddo, … ghiacci e nevi, …
notti e giorni, … luce e tenebre, … folgori e nubi, … Benedica la terra il
Signore, lo lodi e lo esalti nei secoli. …monti e colline, … creature tutte che
germinate sulla terra, … sorgenti, … mari e fiumi,… mostri marini e quanto si
muove nell’acqua, … uccelli tutti dell’aria, …. animali tutti, selvaggi e
domestici, ….. figli dell’uomo, … Israele … sacerdoti del Signore, … servi del
Signore, …. spiriti e anime dei giusti, …. pii e umili di cuore, …. Benedite,
Anania, Azaria e Misaele, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli, perché
ci ha liberati dagli inferi, e salvati dalla mano della morte, ci ha scampati di
mezzo alla fiamma ardente, ci ha liberati dal fuoco. Lodate il Signore, perché
egli è buono, perché la sua grazia dura sempre. Benedite, fedeli tutti, il Dio
degli dei, lodatelo e celebratelo, perché la sua grazia dura sempre».
È il cantico della lode cosmica: in esso riecheggia il
racconto della creazione del primo capitolo di Genesi, evidenziandone il comune
contesto esilico che ha dato origine a entrambi i testi. Il cantico non si
ferma ai figli dell’uomo che sono invitati a benedire il Signore, ma fa
esplicito riferimento a Israele, ai tre fanciulli, a coloro cioè che hanno
visto il manifestarsi di Dio nella loro storia personale, a coloro che hanno
sperimentato la salvezza che viene da Dio.
Questo è il giorno annunciato
e santo, unico sabato, re e signore. Festa delle feste, e solennità delle
solennità, in cui benediciamo Cristo nei secoli.
Venite, partecipiamo del
nuovo frutto della vite, nel solenne giorno della risurrezione, della divina
esultanza del regno di Cristo, cantiamo a lui come Dio nei secoli.
Leva intorno i tuoi occhi o
Sion e guarda: ecco vengono i tuoi figli a te, risplendenti di luce divina,
dall’occidente e da settentrione, dall’oriente e dal mare, e in te benedicono
Cristo nei secoli.
Padre onnipotente, Verbo e
Spirito, unica natura in tre ipostasi, sovrasostanziale, più che divina: in te
siamo stati battezzati, e te noi credenti benediciamo nei secoli.
Non siamo venuti qui di nostra iniziativa, siamo stati
convocati: Nel primo giorno ci sarà
convocazione sacra, non farete alcuna ope-ra servile (Lv 23, 35); oggi
chiesa e sinagoga coincidono, perché questo è il nuovo Sabato, l’uno come era
l’uno il primo giorno della creazione (Gn 1, 5), il primo giorno della settimana
non da un punto di vista cronologico ma ontologico, perché in esso ha origine
il cammino verso l’ottavo giorno. Sempre riferendoci al tema battesimale, è
opportuno rilevare come fin dall’inizio e per molti secoli, i battisteri
avevano forma ottagonale (ne sono uno splendido esempio quelli di Ravenna che
risalgono addirittura alla prima metà del V secolo) per sottolineare l’ingresso
del battezzato in una nuova dimensione temporale, in cui non è l’onnivoro dio
chrònos a divorare tutto, ma è il Signore Gesù Cristo a spezzare il tempo
chiuso in se stesso e a offrire all’uomo la possibilità di entrare nell’eterno
(kairòs). L’identificazione del primo con l’ottavo giorno risale all’epoca
apostolica ed è testimoniata dalla lettera di Barnaba, ripresa da un gran
numero di Padri della Chiesa e ripresentata in occidente dal grande liturgista
tedesco Odo Casel nel secolo scorso. La nuova creazione inizia con il giorno di
Pasqua e ogni domenica ritorna a noi nella celebrazione del giorno del Signore:
mentre in greco ed in latino la domenica trae il nome dal Signore, per gli
slavi la domenica trae il nome dalla Risurrezione. La domenica, in particolare
quella di Pasqua, è allora alfa e omega, principio e compimento, Eucaristia e
Parusia.
In Mt 26, 29, come già citato nella terza ode, Gesù
aveva posto come condizione per bere nuovamente al calice l’ingresso nel regno,
cosa che oggi è finalmente possibile: si compie definitivamente il miracolo di
Cana e la nostra comunione al corpo e al sangue di Cristo rende l’uomo
rinnovato dalla risurrezione una nuova famiglia nella Chiesa radunata. In Is
60, 1-4 troviamo la convocazione di tutti i popoli nella nuova Gerusalemme:
quello che era il resto di Israele post-esilico si dilata fino a comprendere
tutti i popoli della terra. Alzati,
rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra
di te. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le
nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te.
Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere. Alza
gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I
tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio. Così
in Is 49, 12, quando il Signore promette a Israele di costituirlo a capo delle
nazioni, dice Guardate! Questi vengono da
lontano; ecco, questi altri vengono da settentrione e da occidente, e questi
dal paese dei Sinim. Ogni confine geografico è inadeguato perché la
salvezza è per tutti e per ciascuno, senza nessuna distinzione: la Chiesa non è
un circolo privato ma è aperta a chiunque desideri condividere e riconoscere il
comune cammino verso Cristo e in Cristo. Siamo stati battezzati nel nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (Mt 28, 19), e nella Trinità che ci è
stata compiutamente rivelata nella passione, morte e risurrezione di Gesù
abbiamo la certezza di avere con noi il Signore fino alla fine dei secoli (Mt
28, 20). Oggi Eucaristia e Regno coincidono!
La nona e conclusiva ode del canone è l’unica a
basarsi su testi neotestamentari, il cantico della Madre di Dio (Lc 1, 46-55) e
la preghiera di Zaccaria, padre di san Giovanni Battista (Lc 1, 68-79):
entrambi questi cantici sono di uso comune nella liturgia delle ore
occidentale, sebbene il primo sia cantato nell’ufficio del Vespero e solo il
secondo sia cantato nell’ufficio di Lodi. In questa circostanza la nona ode è
contemporaneamente il Magnificat di Cristo e della Madre di Dio.
Magnifica, anima mia, il
risorto dopo tre giorni dai morti, Cristo, che dona la vita.
Risplendi, risplendi, nuova
Gerusalemme: la gloria del Signore si è levata su di te. Danza, ora, ed esulta,
Sion, e tu, pura Madre di Dio, rallegrati, per il risorgere di colui che è nato
da te.
Magnifica, anima mia, colui
che volontariamente ha sofferto ed è stato sepolto, e il terzo giorno è risorto
dal sepolcro.
Cristo, nuova Pasqua, vittima
vivente, Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo.
Oh, la tua voce amatissima,
divina e dolcissima; promettesti o Cristo di rimanere con noi fino alla fine
dei secoli: possedendo quest’àncora di speranza, fedeli rallegriamoci.
Maria Maddalena corse al
sepolcro, e vedendo Cristo, conversò con lui come se fosse il giardiniere.
O Cristo, Pasqua grande e
santissima, o Sapienza, Potenza e Verbo di Dio! Concedici di comunicare
chiaramente nel giorno senza tramonto del tuo regno.
Un angelo cantò alla piena di
grazia: Vergine pura, rallegrati! Di nuovo ti dico: Rallegrati! Tuo Figlio dopo
tre giorni è risorto dalla tomba rialzando i morti. Popoli, esultate.
Facciamo nostre le parole di Maria: anche la nostra
anima magnifica il Signore Gesù Cristo, colui che volontariamente ha sofferto
la passione, è stato sepolto in una tomba come qualsiasi mortale, ma è risorto
da essa come Dio. Sono numerose le citazioni su cui è stata composta la prima
strofa: oltre al già citato testo di Isaia del capitolo 60, abbiamo Sof 3, 14 Giubila, figlia di Sion, rallegrati,
Israele, gioisci ed esulta di tutto cuore, figlia di Gerusalemme, e anche
Zc 2, 14 Giubila, rallègrati, figlia di
Sion! Sì, ecco io vengo, abiterò in mezzo a te. Oracolo del Signore sul
tema dell’esultanza della figlia di Sion. In ambito neotestamentario abbiamo Eb
12, 22 che si riferisce direttamente alla Chiesa trionfante Voi vi siete invece avvicinati al monte
Sion, alla città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste, alla festante
riunione delle miriadi angeliche, raccolta attorno all’Agnello mistico da cui
risplende la gloria di Dio (Ap 21, 23) La
città non ha bisogno di sole, né di luna che la illumini, perché la gloria di
Dio la illumina, e l’ Agnello è la sua lampada. È denso di significato il
collegamento dell’annuncio della risurrezione da parte dell’angelo a Maria:
così come Gabriele aveva portato a Maria l’annuncio dell’incarnazione (Lc 1,
47) ora è giusto che Maria riceva da Gabriele l’annuncio della risurrezione con
il medesimo invito alla gioia. Se il tropario dell’Annunciazione ci faceva
cantare: Oggi è l’inizio della nostra
salvezza, il Figlio di Dio diviene figlio della Vergine, nella risurrezione
di Gesù questa economia divina trova il suo compimento. Cristo è la nuova
Pasqua, è lui l’Agnello che toglie il peccato del mondo (Gv 1, 29) indicato da
Giovanni Battista che aveva esultato nel grembo della madre ascoltando il
saluto di Maria (Lc 1, 44). Anche noi ci rallegriamo udendo la voce dello
Sposo, secondo Ct 2, 8 Una voce! Il mio
diletto! Eccolo, viene, e come le vergini sagge, sapendo che la nostra
unica ragione di esistenza è poter celebrare la nostra unione con lo Sposo,
fondiamo la nostra vita sull’àncora di speranza che è il Cristo risorto. Lui ci
ha promesso di essere con noi fino alla fine del mondo (Mt 28, 20), e noi siamo
protesi al suo secondo ritorno. I primi cristiani attendevano la parusia proprio
nel mattino di Pasqua, perché la risurrezione è la dimensione vera della vita.
Noi ci comunichiamo oggi con il Corpo e il Sangue di Cristo risorto,
chiedendogli di poter comunicare con lui, non solo sacramentalmente, quando
tutto sarà consumato nel suo Regno.
Serafino di Sarov, un famosissimo santo russo vissuto
a cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo e canonizzato poco dopo la
sua morte alla vigilia della rivoluzione bolscevica, era solito salutare chiunque
incontrasse esclamando: “Mia gioia, Cristo è risorto!”, perché non poteva
augurare nulla di più vero e fondamentale, l’unico motivo per cui nella vita,
pur nella presenza delle tenebre del male, si possa ragionevolmente essere
contenti. Sempre San Serafino, anche se si era al di fuori del tempo liturgico
(morì infatti nella notte tra l’1 e il 2 gennaio 1833 secondo il calendario
giuliano) passò la sua ultima notte in preghiera davanti all’icona della Madre
di Dio cantando gli inni del canone del mattutino di Pasqua: possiamo sperare
di andare incontro allo Sposo in un modo migliore?
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