mercoledì 29 maggio 2013

San Brendano di Clonfert

 

San Brendano il viaggiatore, abate di Clonfert

16 (29) Maggio

 

Tropario, Tono 4

In te, o santo padre Brendano, la somiglianza con Dio è stata perfezionata, prendendo la croce hai seguito Cristo, e con le tue opere ci hai insegnato a sottomettere la carne che muore, e a coltivare l’anima immortale: perciò, o santo padre, il tuo spirito esulta con gli angeli.

 
 

BRANDANO

di Raymond Lantier

 

 

BRANDANO, San. - Irlandese, nato verso il 484 a Tralee (Kerry). Fondò numerosi conventi in Irlanda, tra cui quello di Clonfert, ove divenne abate e morì verso il 578. È soprattutto celebre per il racconto - popolarissimo nel Medioevo - del suo viaggio settennale alla ricerca del Paradiso. Lo possediamo in una redazione latina, Navigatio sancti Brandani, verosimilmente della fine del sec. XI, e in numerose versioni, tanto nelle quattro lingue celtiche, quanto in francese, inglese, sassone, fiammingo, italiano.
 




La leggenda di S. Brandano si ricollega a tutta una serie di viaggi mitici verso i paesi d’oltremare: tema favorito nella letteratura celtica dei primi secoli dell’era cristiana. Alcuni episodî della navigazione di S. Brandano si ritrovano nel viaggio di Bran figlio di Febal, e nella saga di Maelduin. Ma ci possiamo chiedere se questa leggenda non contenga anche vestigia di tradizioni relative a spedizioni marittime irlandesi e a stabilimenti in Islanda e in America, ai quali sembrano alludere le saghe islandesi. La leggenda di Brandano, poi, si è diffusa ben presto anche fuori dei paesi celti; e sembra l’abbiano conosciuta anche gli Arabi, che ne hanno introdotto qualche episodio nella storia di Sindbad il marinaio. L’isola di S. Brandano è stata indicata sulle principali carte medievali fino ad epoca relativamente recente, per es. sopra una carta veneziana del 1367, su quella anonima di Weimar del 1424; in quella di Beccario (1435) è confusa con Madera, e Martino Behaim (1492) la pone ad ovest delle Canarie. Nel trattato con cui la Corona di Portogallo cede ai Castigliani i suoi diritti sulle Canarie, è detta "l’isola non ancora scoperta". Dal 1526 al 1721 non meno di quattro spedizioni salparono dalle Canarie alla ricerca dell’isola di S. Brandano.

 
 
 

Bibl.: A. Jubinal, La légende latine de Saint-Brandan, Parigi 1836; Zimmer, Keltische Beiträge, II, Brandans Meerfahrt, Berlino 1889; P. F. Moran, Acta Sancti Brandani, Dublino 1872; O’ Donoghue, Brandaniana, Dublino 1893; A. D’Ancona, Scritti danteschi, Firenze 1913, pp. 45-46; C. Wahlund, Eine altfranzösische prosaübersetzung von Brandans Meerfahrt, in Festgabe W. Förster, Halle 1901, p. 129 segg.; id., in Skrifter utgifna af K. Humanistika Vetenskaps-Samfundet i Uppsala, IV, 3 (1902); F. Novati, La Navigatio S. Brandani in antico veneziano, Bergamo 1893, 2ª ed. 1896; J. K. Wright, The geographical Lore of the Time of the Crusades, New York 1925.

 


 
 


 

martedì 28 maggio 2013

LA FESTA DI MEZZO PENTECOSTE

 

LA FESTA DI MEZZO PENTECOSTE (MESOPENTIKOSTI)

 

 

Pochi sono coloro che si recano in Chiesa in tale giorno e la maggior parte addirittura non sa neanche che il Mercoledì dopo la Domenica del Paralitico, la Chiesa celebra una grande festa, la Mezza Pentecoste. Ma una volta la festa di Mesopentikostis (questo il suo nome greco) era una grande festa della Grande Chiesa di Costantinopoli e una folla immensa vi si radunava. Una prima notizia di questa festa la troviamo in una relazione del Regno d’ordine (Cap. 26) di Costantino Porfyrogenito che ci dice che tale festa veniva celebrata fin dall’anno 903 nella chiesa di San Mokiou a Costantinopoli. Vi è una descrizione dettagliata della gloriosa celebrazione, che occupa tutta la pagina ed è determinata dalla nota taxis bizantina, come l’imperatore di mattina prendeva parte alle celebrazioni ufficiali recandosi dal suo palazzo nella chiesa San Mokiou, dove si celebrava tale funzione presieduta dal Patriarca. Era usanza che l’imperatore alla fine delle celebrazioni invitasse a pranzo il Patriarca. E nei nostri odierni libri liturgici vediamo presenti le tracce del vecchio splendore di cui godeva questa festa. Infatti la festa viene presentata come despotica, con i suoi tropari e con il suo doppio canone al mattutino, opere dei grandi innografi Teofane ed Andrea di Creta, con letture proprie, con la sua permanenza tra due domeniche e soprattutto con la sua ottava diremo oggi come le altre grandi feste despotiche dell’anno liturgico.

Ma quale è il tema di questa festa particolare? Non ingloba possiamo dire una realtà storicizzata dal racconto evangelico. La questione è chiaramente festiva e teorica. Il Mercoledì della Mezza Pentecoste, cade 25 giorni dopo la Pasqua e 25 giorni prima della festa di Pentecoste. Segna la metà del periodo dei 50 giorni festivi dopo la Pasqua. È cioè una sosta, una fermata. Questo lo indica molto bene il primo stichiron del vespro della festa: Eccoci giunti alla metà dei giorni che iniziano con la salvifica resurrezione e ricevono il loro sigillo con la divina pentecoste. Questo giorno risplende dai fulgori che riceve da entrambe, congiunge le due feste, ed è venerabile perché annuncia la gloria dell’ascensione del Signore. Senza avere quindi un proprio tema questo giorno unisce i temi, della Pasqua da una parte e della Discesa dello Spirito Santo dall’altra, e anticipa potremmo dire, la gloria dell’Ascensione del Signore, che si festeggerà fra 15 giorni esatti. Certamente questo stare in mezzo alle due grandi feste, ci porta alla mente anche l’aggettivo particolare del Signore in lingua ebraica e cioè Messia. Messia in greco la maggior parte delle volte è tradotto con Cristo. Ma foneticamente la parola ebraica ci riporta lo stare in mezzo in greco. Così sia nei tropari che nel sinassario del giorno, questa etimologia di cui parlavamo sopra diventa motivo di presentare Cristo, come Messia, Mediatore tra Dio e l’uomo, mediatore e riconciliatore del mondo con l’eterno Padre. Per questo motivo, osserva lo Xanthopulos nel suo Sinassario, festeggiamo la Mezzapentecoste, inneggiando il Cristo quale Messia. Anche la lettura della pericope evangelica del giorno rinforza questo pensiero di cui sopra (Gv 7, 14-30). Nel mezzo della festa della Pasqua giudaica Cristo sale al tempio ed insegna. Il suo insegnamento provoca ammirazione, ma anche fa nascere una controversia tra lui e le persone ed i maestri del tempio. È il messia Gesù o non lo è? L’insegnamento di Gesù proviene da Dio o no? Sorge quindi una nuova questione: il Cristo è maestro. Colui che non ha mai frequentato una scuola diremmo oggi, ha la pienezza della saggezza, perché è la Sapienza-Sofia di Dio che ha creato il mondo. Proprio questo dialogo ha ispirato gran parte dell’innografia di questa festa. Colui che insegna al tempio, nel mezzo dei maestri del popolo giudaico, nel mezzo della festa, è il Messia, è il Cristo, il Verbo di Dio. Colui che viene contraddetto dai presunti saggi del suo popolo, è la Sapienza di Dio. Prendiamo ad esempio uno dei tropari più caratteristici, il doxastikon degli aposticha del Vespro: A metà della festa, mentre tu insegnavi, o Salvatore, dicevano i giudei: Come può costui conoscere le Scritture senza aver studiato? Ignoravano che tu sei la Sapienza che ha ordinato il mondo. Gloria a Te!

Poche righe più in basso nell’Evangelo di Giovanni, subito dopo la pericope che contiene il dialogo del Signore con i Giudei nel mezzo della festa, segue un simile dialogo, che ebbe luogo tra Cristo ed i Giudei, l’ultimo giorno della grande festa, cioè a Pentecoste. Questo inizia con una grande frase del Signore Se qualcuno ha sete venga a me e beva, chi crede in me come dice la Scrittura, dal suo grembo scorreranno fiumi d’acqua viva ( Gv 7, 37-38). E continua l’evangelista questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui ( Gv 7, 39). Non ha importanza che queste parole il Signore non le ha proferite durante la Mezzopentecoste ma alcuni giorni dopo. Grazie ad una figura poetica sono state messe in bocca al Signore nel discorso di Mezzopentecoste. D’altronde l’attinenza con il discorso della festa è molto evidente. Non potrebbe trovarsi caratteristica maggiore dell’immagine dell’opera di insegnamento di Cristo. Nell’assetato genere umano l’insegnamento di Cristo viene come acqua viva, come fiume di grazia che ristora la faccia della terra. Cristo è la fonte della grazia, dell’acqua della vita eterna, che ristora e disseta le anime provate degli uomini, che cambia gli assetati in fonti, da cui scorreranno fiumi di acqua viva. Anzi, diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna (Gv 4, 14) disse alla Samaritana. Egli che ha cambiato il deserto del mondo in un paradiso piantato da Dio di alberi sempreverdi irrorati dalle acque dello Spirito Santo. Questo tema ha ispirato anche la poesia ecclesiastica ed ha ornato la festa odierna con inni ineguagliabili. Ne scegliamo uno, tra i più caratteristici, il kathisma dopo la terza ode del Mattutino: Stando nel mezzo del tempio, a metà della festa con voce ispirata gridavi: Chi ha sete venga a me e beva, perché chi beve alla mia divina sorgente farà sgorgare dal suo seno i fiumi delle mie dottrine. Chi crede in me, inviato dal divino Genitore, con me sarà glorificato. Per questo a te acclamiamo: Gloria a Te, o Cristo Dio, perché hai copiosamente riversato sui tuoi servi i flutti del tuo amore per gli uomini. Questa in sintesi è la festa di Mezzopentecoste

 

Dalla rivista della Metropoli di Kesariani,
liberamente tradotto dal greco dal diacono Rosario S.

 

Mercoledì della 4ª settimana di Pasqua: Metà Pentecoste

 
Icona di Mezza Pentecoste, Mosca XV sec.




Mercoledì della 4ª settimana di Pasqua: Metà Pentecoste (Преполовение)

  

Il mercoledì della IV settimana di Pasqua segna la metà del pentakostarion, il periodo che dalla Pasqua giunge alla Pentecoste. Viene detto perciò mercoledì di mesopentikostis. Gli inni ricordano tale collocazione, il tema della festa è invece specificatamente quella di Gesù Maestro.

Nonostante non sia una delle Grandi Feste ha preortìa e meteortìa ed apodosis l’ottavo giorno.

L’icona della festa stranamente non richiama l’Evangelo del giorno (Gv 7, 14-30), ma mostra il Fanciullo dodicenne che, dopo essere salito con i genitori a Gerusalemme, vi si trattiene nel tempio a discutere con i dottori della Legge.

Il Divino Fanciullo è posto al centro dell’icona, assiso tra un semicerchio di anziani che ascoltano la sua parola.

La figura di dimensioni maggiore e lo scranno più elevato, con uno sgabello per i piedi, mostrano la sua qualità di maestro.

Gli edifici sullo sfondo simboleggiano naturalmente il tempio in cui ha luogo la scena.

 

 

Tropario, tono 8

A metà della festa pasquale, disseta, o Salvatore, l’anima mia assetata con l’acqua della pietà, poiché Tu stesso hai detto a tutti: Chi ha sete venga a me, e beva. Tu sei la fonte della vita, o Cristo Dio, sia gloria a Te.

 

Kontakion, tono 4

O creatore e signore di tutte le cose, o Cristo Dio, a metà della festività legale, dicevi a quelli che ti stavano attorno: Venite a me ed attingete le acque dell’immortalità. Per cui noi ci prostriamo davanti a Te e con fede gridiamo: Donaci la misericordia, Tu infatti sei la sorgente della nostra vita.

 

 

Apostolo: Atti degli apostoli 14, 6-18.

In quei giorni gli apostoli si rifugiarono nelle città della Licaònia, a Listra e Dervi e nei dintorni, e là evangelizzavano. C’era a Listra un uomo incapace di stare in piedi, zoppo sin dal ventre di sua madre, che non aveva mai camminato. Egli udì Paolo parlare e questi, guardandolo fisso e vedendo che aveva fede di esser salvato, disse a gran voce: “Alzati diritto in piedi!” Egli saltò e camminava. La folla allora, al vedere ciò che Paolo aveva fatto, si mise a gridare in dialetto licaonio e disse: “Gli dei, fatti simili agli uomini, sono scesi da noi!”. E Barnaba lo chiamavano Zeus e Paolo Ermes, perché era lui a portare la parola. Intanto il sacerdote di Zeuss che è all’ingresso della città, recando alle porte tori e ghirlande, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. Sentendo ciò, gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando: “Uomini, perché fate questo? Anche noi siamo esseri umani, deboli come voi, e vi evangelizziamo di tornare da queste cose inutili al Dio vivente che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano. Egli, nelle generazioni passate, ha permesso a ogni popolo di seguire il proprio cammino; ma non ha cessato di dar testimonianza di sé beneficando, dandovi dal cielo piogge e stagioni fruttifere, riempiendo di cibo e di letizia i vostri cuori”. E così dicendo, riuscirono a fatica a far desistere la folla dall’offrire loro un sacrificio.

 

Evangelo: secondo Giovanni 7, 14-30.

A metà della festa Gesù salì al tempio e insegnava. I Giudei ne erano stupiti e dicevano: “Come mai costui conosce le lettere, senza essere stato a scuola?”. Gesù rispose e disse loro: “La mia dottrina non è mia, ma di chi mi ha inviato. Chi vuol fare la sua volontà, conoscerà di questa dottrina se viene da Dio, o se io parlo da me stesso. Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di chi lo ha inviato è veritiero, e in lui non c’è ingiustizia. Non è stato forse Mosè a darvi la Legge? Eppure nessuno di voi osserva la Legge. Perché cercate di uccidermi?”. Rispose la folla: “Tu hai un demonio! Chi cerca di ucciderti?”. Rispose Gesù e disse loro: “Un’opera sola ho compiuto, e tutti ne siete stupiti. Mosè vi ha dato la circoncisione - non che venga da Mosè, ma dai padri - e voi circoncidete un uomo anche di sabato. Ora se un uomo riceve la circoncisione di sabato perché non sia trasgredita la Legge di Mosè, voi vi sdegnate contro di me perché ho guarito tutto intero un uomo di sabato? Non giudicate secondo apparenza, ma giudicate con giusto giudizio!”. Intanto alcuni di Gerusalemme dicevano: “Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, e non gli dicono niente. Che forse i capi abbiano riconosciuto che egli è il vero Cristo? Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove è”. Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, disse gridando: “Anche me conoscete e sapete di dove sono! Io non sono venuto da me e chi mi ha inviato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché da lui Io Sono ed egli mi ha inviato”. Allora cercavano di prenderlo, ma nessuno gli mise mano addosso, perché non era ancora giunta la sua ora.

 

 

Per la tua edificazione puoi leggere anche:

La festa di Mezza-Pentecoste del vescovo Alexandre de Zilon

lunedì 27 maggio 2013

Malattia e guarigione nell'arte paleocristiana

 
Fronte di sarcofaco presso il museo Lateranense




Malattia e guarigione nell’arte paleocristiana

Quel mantello «alla cinica» che copre il terapeuta


 

di Fabrizio Bisconti

L’immaginario iconografico paleocristiano accoglie molto presto gli episodi evangelici legati alla malattia e ai relativi miracoli, che vedono il Cristo come terapeuta e guaritore, tanto è vero che, in molti casi, il Salvatore assume le caratteristiche fisionomiche di Asklèpios e veste il pallio dei sapienti, ovvero il cosiddetto mantello "alla cinica", come succede in un singolare sarcofago romano ora conservato al museo di Palazzo Massimo riferibile all’età tetrarchica, ossia al grave momento della persecuzione dioclezianea. È sintomatico che, in questo rilievo, il Cristo guaritore compaia contemporaneamente come protagonista del sermone della montagna (Luca, 6, 20, Marco, 5, 1-3) e come guaritore della mulier inclinata, del cieco nato, del lebbroso, del paralitico, dell’ossesso, quasi per indicare che è proprio dal Lògos e dalle sue parole che si muovono le vie della salvezza del corpo e dell’anima, in perfetta coerenza con quanto evidenziano i Padri della Chiesa: da Tertulliano (Adversus Marcionem, 4, 14) a Clemente Alessandrino (Stromata, 5, 70, 1). Ma la traduzione figurata dei miracoli di guarigione si affaccia ancora prima all’orizzonte figurativo paleocristiano, sin dagli esordi del III secolo, quando, simultaneamente, nel battistero di Dura Europos, in Siria, e in uno dei cubicoli della più antica area del complesso romano di San Callisto, compare l’immagine del paralitico già guarito, mentre solleva il suo lettuccio da infermo sulle spalle.


 
 


Dura Europos, il paralitico
 
 
Come è noto, i sinottici rievocano un miracolo occorso a un paralitico a Cafarnao (Matteo, 9, 1-8, Marco, 2, 3-12, Luca, 5, 18-26), mentre Giovanni ricorda un prodigioso risanamento di uno storpio presso la piscina probatica di Gerusalemme (Giovanni, 5, 1-15).

Lo schema iconografico molto semplice, che - come si è detto - comporta la figura del malato che risponde all’ordine perentorio del Cristo di alzarsi e camminare, rende bene l’idea dell’urgenza e dell’eccezionalità dell’evento, talora arricchito dal sacro gesto dell’impositio manuum del Salvatore, che vuole significare la potenza taumaturgica del Lògos. Il miracolo, che si verifica presso la piscina di Bethesda, rappresentato molto spesso, specialmente nei sarcofagi romani di età teodosiana, sottolinea il collegamento naturale che l’idea della guarigione intrattiene con il concetto di purificazione.
 
 
 
Catacombe di San Callisto, Mosè apre le acque, battesimo del Signore e il paralitico
 
 
Presso la piscina, situata ai piedi della collina che si alzava nei pressi del Tempio, si affollavano, infatti, molti infermi, che si precipitavano nelle acque non appena un angelo ne sollevava il livello, con la speranza di essere i primi a immergersi per essere risanati. Il miracolo del paralitico - per questo motivo - è stato spesso interpretato in chiave battesimale, come sottolinea efficacemente Tertulliano (De baptismo, 5), quando ricorda che il bagno nell’acqua lustrale monda i fedeli dal peccato, restituendo l’integrità fisica e spirituale.

La stessa associazione semantica sostiene la fortuna iconografica degli episodi relativi alle guarigioni dei non vedenti. Oltre al risanamento di ciechi in massa (Luca, 7, 21, Matteo, 15, 30-31 e 21, 14), il Nuovo Testamento ricorda altri miracoli relativi ai non vedenti guariti dal Cristo, che possono essere ricondotti a uno verificatosi a Cafarnao, che interessò una coppia di ciechi (Matteo, 9, 28-31); a un altro accaduto in una via di Gerico, ancora in favore di una coppia di non vedenti (Matteo, 20-29-34); a quello celebre relativo al mendicante Bartimeo (Marco, 10, 46-52); a uno ancora ambientato a Bethesda (Marco, 8, 22-26) e a quello, sopra ricordato, della piscina di Siloe. Specialmente in riferimento a quest’ultimo miracolo rievocato da Giovanni, i Padri della Chiesa sottolineano, appunto, il simbolismo battesimale, per la chiara allusione al sacramento dell’illuminazione, come afferma esplicitamente ancora Tertulliano (De baptismo, 5, 5).

 
 
Frammento di sarcofaco nel museo di Arles


Altri si soffermano sull’assimilazione cieco nato-uomo peccatore dalla nascita e cieco illuminato-uomo risanato dalla grazia del Battesimo e anzi, per Ireneo (Adversus haereses, 5, 15, 13), il lavaggio della piscina di Siloe si riferisce sicuramente al lavacro battesimale e il momento precedente è da identificarsi con il catecumenato, mentre per Ambrogio (Epistulae, 80) l’uomo, che aveva un cuore cieco, dopo Siloe, ha aperto gli occhi.

Questo logico e naturale passaggio simbolico nutrì una fortuna assai considerevole della guarigione del cieco nell’arte cristiana più antica, che rappresenta l’infermo nel momento del miracolo con le braccia sollevate nel gesto orante del ringraziamento, mentre il Cristo impone solennemente le mani sul suo capo a sui suoi occhi. Piuttosto fortunato risulta, nella produzione figurativa paleocristiana, anche il miracolo della guarigione operata dal Cristo nei confronti di un’emorroissa (Matteo, 9, 20-22, Marco, 5, 25-29, Luca, 8, 43-48), che assurge, anzi, ad emblema paradigmatico della fede nella potenza divina e taumaturgica del Cristo. L’arte, sin dalle prime manifestazioni, fissa il momento in cui la donna inginocchiata sfiora il pallio del Salvatore che, talora, si volge verso di lei per interpellarla.

Lo schema iconografico, assai sintetico ed estremamente simile a quello relativo alla guarigione della figlia della cananea (Matteo, 15, 21-28, Marco, 7, 24-30), rende molto bene il forte concetto del peccato annullato dal perdono, per il tramite del pentimento, alludendo, in senso più lato, alla Chiesa, che mette a nudo le sue piaghe e chiede di essere guarita, come specifica chiaramente Ambrogio (De poenitentia, 1, 7, 31).

 

Sarcofago nel museo di Algeri
 


Più rara risulta la traduzione figurata della guarigione della donna curva (Luca, 13, 10-13), che, però, trova un’interessante manifestazione in un affresco del cimitero dei santi Pietro e Marcellino, dove la scena compare insieme a quella dell’emorroissa e della samaritana al pozzo, quasi per declinare al femminile tutto il programma decorativo di un arcosolio, dove, probabilmente, era sepolta una defunta.

Tutte queste rappresentazioni miracolose si inseriscono naturalmente nelle intenzioni significative di tutta l’arte cristiana delle origini, sempre tesa a trasmettere un messaggio positivo, poco incline a raccontare le storie del dolore, ma preoccupata a indicare le strade della guarigione, della speranza, della soluzione del problema, del superamento delle situazioni negative.
Questa generale atmosfera gioiosa investe anche gli episodi che vedono come protagonisti i malati, gli infermi e i sofferenti: a loro la "Bibbia figurata" riserva la soluzione finale della guarigione miracolosa, del superamento dell’imperfezione fisica, della purificazione, della salvezza, che tanto ha da condividere con l’idea soterica del Battesimo.



da: © L’Osservatore Romano 11 febbraio 2010

 

domenica 26 maggio 2013

Dalle Omelie sui salmi di Asterio di Amasea

 
 
Dalle Omelie sui salmi di Asterio vescovo di Amasea

 

Oggi la Chiesa, l’erede, è esultante. Il suo Sposo, il Cristo Gesù, che soffrì, è risuscitato. Lei aveva pianto l’uomo dei dolori, ora festeggia il vivente. L’erede è nella gioia, il popolo della vecchia alleanza è coperto di confusione per averlo messo a morte; ha così perduto l’eredità. Lo Sposo è risorto e il giudeo, l’avversario della sposa, è stato sgominato. Perché? Aveva cercato di cancellare la risurrezione affermando: “I discepoli hanno sottratto il Signore” (Mt 28, 13). Ma se questi l’avessero prelevato dal sepolcro, come avrebbero potuto nel suo nome guarire il paralitico? Un morto non rialza uno storpio. Un morto non restituisce l’uso delle gambe, un morto non insegna a camminare. Uno non dà agli altri quello che lui stesso non possiede. Lo Sposo è risorto e, come gli avvocati in tribunale, i santi profeti ed apostoli si accostano a lui per raccogliere nella Chiesa l’eredità promessa.

Rallegrati, o Chiesa, sposa di Cristo! La risurrezione dello Sposo ti ha rialzata dal suolo dove i passanti ti calpestavano. Gli altari dei demòni non disperdono più i tuoi figli, ma i templi di Cristo accolgono i neobattezzati. La tirannia degli idoli ormai è cessata, trionfano gli altari di Cristo. Non siamo più convocati dai flauti per adorare la statua d’oro, ma i salmi ci insegnano a lodare Iddio. I piedi della cortigiana non danzano più sulla morte di Giovanni, i talloni della Chiesa pestano la morte.

La fede non è più rinnegata, si piega ogni ginocchio. Tacciono le grida da tragedia, sbocciano come corolle cantici nuovi. Non esalano più fumo le vittime grasse, ma sale l’incenso della preghiera. Sgozzare stupide bestie ha perso ogni senso da quando fu immolato l’agnello che toglie i peccati del mondo.

O meraviglia! L’inferno ha divorato Gesù Cristo, il nostro maestro, ma non è riuscito a inghiottirlo. Il leone ha sbranato l’agnello e il vomito l’ha torturato: la morte assorbì la vita, ma assalita dalla nausea, rigettò il suo festino. Il gigante non poté portare Cristo morto. Un gigante tremò davanti ad un cadavere. Sferrò battaglia ad un vivo, ma un morto lo vinse e lo atterrò. Se il diavolo fosse stato sconfitto da un vivente, avrebbe potuto dire: Non potei vincere Dio; ma lottò contro un vivo e dovette soccombere di fronte ad un morto; ogni scusa vien meno.

Un chicco solo fu seminato e l’universo è stato nutrito. Come uomo fu ucciso: come Dio è tornato in vita e dà la vita alla terra. Come un coccio fu fatto in pezzi, e come un gioiello agghinda la Chiesa. Come agnello fu sgozzato e come pastore disperse la mandria dei demoni, col bastone della croce. Come cero sul candeliere, in croce si spense, ma come sole s’è destato dal sepolcro.

Abbiamo visto compiersi due prodigi: il giorno si oscurò, quando fu crocifisso Cristo, e quando egli risorse la notte brillò come il giorno. Perché il giorno si ottenebrò? Perché sta scritto. “Si avvolgeva di tenebre come di velo” (Ps 17,12). Perché la notte ebbe lo splendore del giorno? Perché il profeta diceva: “Nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno” (Ps 138,12). O notte, più luminosa del giorno! O notte più risplendente del sole. O notte, più candida della neve, più lucente delle nostre torce, più dolce del paradiso. O notte che non conosce tenebre, tu scacci ogni torpore e ci fai vegliare insieme con gli angeli. O notte, spavento dei demoni, notte di Pasqua, attesa durante un anno intero! Notte nuziale della Chiesa, che fai nascere i nuovi battezzati e spogli il demonio addormentato. Notte in cui l’erede introduce gli eredi nell’eredità! Fino alla fine dei tempi per colei che ha conseguito di ereditare.

 

sabato 25 maggio 2013

Quarta domenica di Pasqua (del Paralitico)





Quarta domenica di Pasqua (del Paralitico)

 

La quarta Domenica di Pasqua, chiamata Domenica del Paralitico, celebra il Salvatore che ha sconfitto la morte e che fa dono al paralitico di Betzaetà della sua grande misericordia.

 

La lettura dell’Apostolo è tratta dagli Atti degli apostoli (9, 32-42):

In quei giorni avvenne che mentre Pietro passava da tutti, giunse anche dai fedeli che dimoravano a Lidda. Qui trovò un uomo, un tale di nome Enea, che da otto anni giaceva su un lettuccio ed era paralitico. Pietro gli disse: “Enea, Gesù Cristo ti guarisce; alzati e rifatti il letto”. E subito si alzò. Lo videro tutti gli abitanti di Lidda e del Saròn e si convertirono al Signore. A Ioppi c’era una discepola a nome Tavithà, che significa Gazzella. Essa era ricca dalle opere buone e dalle elemosine che faceva. Capitò che in quei giorni si ammalò e morì. La lavarono e la deposero nella stanza di sopra. E poiché Lidda era vicina a Ioppi i discepoli, udito che Pietro si trovava là, mandarono due uomini a pregarlo: “Non tardare a passare da noi!” Pietro si alzò e andò con loro. Appena arrivato lo condussero alla camera di sopra e gli si presentarono tutte le vedove in pianto che gli mostravano le tuniche e i mantelli che Gazzella confezionava quando era con loro. Pietro fece uscire tutti e si inginocchiò a pregare; poi rivolto al corpo disse: “Tavithà, alzati!” Ed essa aprì gli occhi, vide Pietro e si mise a sedere. Egli le diede la mano e la alzò, poi chiamò i santi e le vedove, e la presentò loro viva. La cosa fu nota in tutta Ioppi, e molti credettero nel Signore.

 

Il brano dell’Evangelo secondo Giovanni (5, 1-15):

In quel tempo era la festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. C’è a Gerusalemme, presso la Porta delle pecore, una piscina chiamata in ebraico Vithesdhà, che ha cinque portici, sotto i quali giaceva una moltitudine di infermi, ciechi, zoppi e paralitici, che aspettavano il movimento delle acque. Infatti un angelo del Signore in certi momenti scendeva nella piscina e agitava l’acqua; il primo a entrarvi dopo l’agitazione dell’acqua, guariva da qualsiasi malattia fosse affetto. Si trovava là un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù vedendolo steso e sapendo che da molto tempo stava così, gli dice: “Vuoi guarire?”. Gli rispose il malato: “Signore, non ho uomo che mi immerga nella piscina quando l’acqua viene agitata; quando vado io, un altro scende prima di me”. Gesù gli dice: “Alzati, prendi il tuo giaciglio e cammina”. E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo giaciglio, camminava. Quel giorno era un sabato. Dicevano dunque i Giudei al guarito: “È sabato e non ti è lecito prendere il tuo giaciglio”. Ma egli rispose loro: “Chi mi ha guarito mi ha detto: Prendi il tuo giaciglio e cammina”. Gli chiesero: “Chi è l’uomo che ti ha detto: Prendi il tuo giaciglio e cammina?”. Ma il guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato dalla folla che c’era in quel posto. Dopo queste cose Gesù lo trova nel tempio e gli disse: “Ecco che sei guarito; non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio”. Quell’uomo se ne andò e annunciò ai Giudei che è stato Gesù a guarirlo.

 
           

La festa a cui si allude nel brano evangelico è probabilmente la Festa delle Capanne o la Pentecoste degli Ebrei, Gesù andò a Gerusalemme, città che aveva molte porte d’ingresso. Una di esse si chiamava porta delle pecore (o porta probatica), perché da essa entravano i montoni destinati al sacrificio, è dunque la porta che conduceva al Tempio.

Vicino a questa porta, c’era una cisterna piena d’acqua, intorno a cui vi era un edificio che veniva chiamato Betzaetà, cioè casa della misericordia, e che aveva cinque portici (logge, gallerie), presso cui sostavano molti ammalati: ciechi, zoppi e paralitici che aspettavano l’agitazione dell’acqua, provocata ogni tanto da un angelo. Il primo dei malati ad entrarvi guariva da qualsiasi malattia fosse affetto.

A seguito dei restauri intrapresi sulla Chiesa di Sant’Anna in Gerusalemme nel 1888 sono stati ritrovati i resti di due grandi piscine con cinque portici. Un affresco riscoperto e situato su uno dei muri rappresenta un angelo che smuove l’acqua (e questo particolare è ricordato nel testo del Vangelo).


 
Gerusalemme, resti della piscina di Betzaetà


La guarigione del paralitico di Cafarnao, la cui pericope (Mc 2, 1-12) abbiamo letto nella seconda domenica di Quaresima, ci ricordava nel cammino penitenziale che solo Cristo può guarirci dalla nostra paralisi causata dal peccato; il miracolo di Betzaetà, che ha un orizzonte tutto pasquale, ci mostra la risoluzione sacramentale di questa nostra paralisi attraverso l’immersione nelle salutifere acque battesimali. Nel battesimo moriamo al peccato con Cristo, con Lui veniamo sepolti (l’immersione) e con Lui risuscitiamo a vita nuova (l’emersione).

Nel racconto giovanneo vi è, innanzitutto, un contrasto tra festa dei giudei che si svolge nel tempio e la moltitudine di gente sofferente. Questi sono esclusi dai festeggiamenti nel tempio. Cristo non va al tempio ma decide di andare da chi è più sofferente. Cristo si allontana da certe forme di religiosità. Chi vuole trovare Lui deve recarsi dove c’è l’umanità sofferente.

L’attenzione del narratore si concentra su uno di quei malati. La sua infermità viene definita dallo stesso termine greco che indicherà la malattia di Lazzaro (astheneia). Questa parola non è usata da Giovanni in nessun altro caso.

Scrive sant’Agostino “Il quaranta è un numero sacro, simbolo di perfezione. Mosè digiunò quaranta giorni, così Elia, così Gesù. Due sono i precetti della carità che il Signore raccomanda: amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e amerai il prossimo tuo come te stesso. Se il numero quaranta significa perfezione della legge e se la legge non si compie se non mediante il duplice precetto della carità, ti fa meraviglia che quell’uomo fosse infermo da quaranta meno due?”.
 

 


Gesù volge lo sguardo verso l’uomo che giaceva paralizzato e prende l’iniziativa, a differenza del racconto marciano, dove l’iniziativa parte dagli amici del paralitico.

L’uomo infermo è affetto da un duplice handicap: da una parte è malato da tanto tempo e ciò fa supporre che la sua malattia fosse incurabile, dall’altra non può approfittare dell’efficacia dell’acqua. È significativo che Gesù, sapendo che da trentotto anni giaceva paralizzato presso la piscina gli abbia chiesto: “Vuoi guarire?”. Questa domanda può essere intesa come un invito ad abbandonare il precedente stile di vita, o anche può sottolineare la necessità di un’adesione consapevole della persona all’opera di guarigione. Quest’uomo vuole cambiare la propria condizione ma è impossibilitato a farlo. Pur vivendo immobilizzato da trentotto anni, non aveva perso la speranza nella guarigione. Però il malato risponde riferendosi all’unica speranza che egli conosce: l’agitazione delle acque nella piscina, unitamente all’attesa di qualcuno che l’aiuti a calarsi dentro. Queste aspettative però sono state deluse da tempo perché non ha nessuno che lo immerga nella piscina. È il più povero tra i poveri! Si sottolinea la sua solitudine, la sua rassegnazione tanto che la gente si disinteressa di lui.


 


L’acqua della piscina sembra assumere un significato simile al pozzo di Giacobbe dove Gesù incontra la Samaritana (pericope della quinta domenica di pasqua). Come quell’acqua non è capace di dissetare definitivamente, così quest’acqua promette una guarigione che non si realizza mai. Il pozzo di Giacobbe e la piscina di Betzaetà sono destinati ad essere sostituiti dall’acqua viva donata da Cristo. Quest’acqua disseta e guarisce! Il paralitico toccato da Gesù ritorna ad essere padrone della propria vita. Crede, si alza e cammina. L’incontro con Gesù gli cambia radicalmente la vita: se avesse deciso di non credere sarebbe rimasto nella paralisi.

Il miracolo viene compiuto di sabato. Questo provocherà una reazione di ostilità da parte dei giudei che giudicheranno il gesto di Gesù una trasgressione del riposo sabatico. I giudei governano il popolo mettendo la legge al di sopra del bene della persona. Cristo mette la persona umana al di sopra della legge. Emerge nuovamente la differenza tra la potenza misericordiosa e miracolosa di Cristo e la religione legalista formale, persecutoria, incapace di cogliere la divinità di Gesù, di provare gioia di fronte ad un miracolo.

Se la Quaresima, dunque, ci conduceva verso la Pasqua del Signore, il cammino pasquale ci conduce verso la Pentecoste, che è l’ottava domenica di Pasqua. Lì, finalmente, Gesù stesso ci rivelerà come solo credendo in Lui potremo ricevere il Santo Spirito, così che anche da noi possano sgorgare quei fiumi di acqua viva portatori della guarigione nei confronti di chi, come noi lo siamo stati, è ancora nella paralisi; così come anticipato nella lettura degli Atti, dove l’apostolo Pietro nella guarigione del paralitico Enea e nella resurrezione di Tavithà ci ricorda che solo uniti a Cristo potremo operare quei segni che Egli stesso ci ha inviato a compiere nel suo nome, solo uniti a Cristo potremo nel deserto di questo mondo essere acqua viva che disseta.   
 



giovedì 23 maggio 2013

DONNE SANTE NELLA CHIESA ORIENTALE DEI PRIMI SECOLI

 
Ravenna, S. Apollinare Nuovo, teoria delle vergini
 

DONNE SANTE NELLA CHIESA ORIENTALE DEI PRIMI SECOLI

 

di Patrizia Solari

 

 
Preparando nei mesi scorsi la documentazione per gli ultimi santi apparsi sulla rivista, dentro di me pensavo: “Adesso però è ora che presenti di nuovo qualche donna!”

All’inizio di novembre sono stata a Venezia per vedere una mostra di miniature, manoscritti e incunaboli: “Oriente cristiano e santità”. E nel catalogo che accompagnava la mostra ho trovato un saggio, non su UNA santa, ma sulle sante dei primi secoli in Oriente. Queste notizie ci permettono di collegarci a un periodo in cui la Chiesa non era ancora divisa e di inserirci nelle riflessioni proposte nella settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Ed ecco la messe che ho raccolto.

 

Martiri, monache ascete, pie matrone, prostitute pentite, donne travestite da monaco

“Nei primi secoli del Cristianesimo, quando la Chiesa lottava per garantirsi l’esistenza a fianco delle altre religioni dell’Impero e per ottenere il riconoscimento ufficiale, i casi di santità femminile furono piuttosto numerosi. La maggior parte di questi è rappresentata da vergini martiri, uccise durante le persecuzioni dei secoli III e IV come, ad esempio, Barbara, Eufemia di Calcedonia, Caterina e Teodora di Alessandria. Con il trionfo del Cristianesimo nel IV secolo, la tipologia delle sante martiri venne sostituita da quella di un nuovo genere di sante comprendente le monache ascete, le pie matrone, le prostitute pentite e le donne travestite da monaco. (...)

Al contrario di quanto accade nel caso delle vergini martiri (talora del tutto leggendarie), la reale esistenza di molte sante monache o matrone, quali Macrina, la sorella maggiore di Gregorio di Nissa, Gorgonia, la sorella di Gregorio Nazianzeno, e di Matrona di Perge, è certa. Erano vergini o mogli e madri che condussero, però, una vita così pia ed ascetica da guadagnarsi la fama di sante. (...)

La più famosa delle prostitute pentite (...) fu Maria Egiziaca, che visse un’esperienza di conversione a Gerusalemme. In seguito essa si ritirò nel deserto della Giudea dove per quarantasette anni menò una vita da eremita, sottoponendosi a estreme privazioni e all’isolamento totale.

Anche il tema della pia donna mascherata da uomo e vissuta in un monastero maschile era estremamente diffuso nella tarda antichità. È tipico a questo proposito il caso di santa Marina/Marino, che prese l’abito da monaco per non doversi separare dal padre, intenzionato ad abbracciare la vita religiosa. Altre donne (...) indossarono l’abito monastico maschile per sfuggire ai maltrattamenti del marito o alle attenzioni di un pretendente indesiderato”.[1]

 

Bisogna rilevare che di regola, nella classificazione bizantina dei santi, mentre troviamo gli uomini raggruppati per categorie (martiri, monaci, vescovi ecc.) le sante sono riunite in un solo gruppo, il cui criterio è il sesso e possiamo osservare questa distinzione sia nelle raffigurazioni dell’arte monumentale che nella produzione letteraria. Per esempio, nel mosaico del Giudizio Universale di Santa Maria Assunta (sec. XII) a Torcello (Venezia) è raffigurato un unico gruppo di sante e tre diverse categorie di santi (soldati, monaci, vescovi). Una spiegazione di questa distinzione può essere data dal comunque esiguo numero di sante rispetto ai santi, da una parte, e dall’altra, dalla caratteristica della mentalità bizantina, che considerava la donna, per sue caratteristiche intrinseche, seriamente impedita ad accedere alla santità. A meno che non dimostri eccezionali doti di ascetismo o non assuma, nel condurre una vita estremamente pia, caratteristiche maschili: forza, virilità, fermezza ...

 

“Rispetto al periodo delle persecuzioni, il numero delle canonizzazioni femminili a Bisanzio durante la tarda antichità diminuì notevolmente. (...) Per ragioni ancora non affatto chiare, nei secoli VIII e X la santità femminile venne riconosciuta in misura assai minore che quella maschile e negli ultimi cinque secoli della vita di Bisanzio[2] solo tre donne furono elevate agli onori degli altari.

Nel VII secolo, con il passaggio dalla civiltà tardoantica a quella propriamente bizantina, ebbe luogo un importante cambiamento nella tipologia del santo donna. Le sante di Bisanzio, in questo periodo, appartengono sostanzialmente a tre categorie: le restauratrici dell’ortodossia, le sante monache e badesse e le pie matrone”. Più raramente, ma non oltre il X secolo, è ancora possibile individuare singoli casi che riprendono i modelli precedenti, come le eremite o le donne travestite da uomo.

 

 

Le restauratrici dell’ortodossia e le sante monache e badesse

“I due casi più illustri di restauratrici dell’ortodossia sono rappresentati dalle imperatrici Irene e Teodora che difesero strenuamente la causa iconodula[3] contro le forze iconoclaste. Il movimento iconoclasta raggiunse i vertici del potere negli anni compresi tra il 726 e il 787 e tra l’815 e l’842, quando la politica imperiale proibì la produzione e la venerazione delle immagini. Le due imperatrici, entrambe vedove che agivano da reggenti per i figli (troppo piccoli alla morte del padre per assumere le redini del potere), capovolsero la politica iconoclasta dei propri mariti e restituirono alla Chiesa Ortodossa il culto delle sacre icone rispettivamente nel 787 e nell’843”.

Le sante monache o badesse si distinsero, nella media età bizantina, all’interno di una comunità cenobitica. “Esse si impegnarono nella pratica dell’ascesi, sebbene in forme non così estreme come quelle praticate dalle sante romite che le avevano precedute, e ottennero grande fama per i loro atti di ubbidienza, per il "dono delle lacrime" e persino per le loro prediche”.

Una di queste fu Irene di Chrysobalaton, che nel IX-X secolo ancora molto giovane fu messa a capo di un monastero a Costantinopoli. Oltre alle pratiche di ascetismo, al dono della vista interiore e di predizione, “uno degli aspetti più singolari della sua carriera monastica (...) è rappresentato dalle prediche sulla salvezza che ella pronunciava a beneficio dei visitatori del monastero: ella non rivolgeva il suo insegnamento soltanto alle parenti, alle mogli e alle figlie dei senatori, ma anche agli uomini”.

Irene era vergine, ma il matrimonio non costituiva un ostacolo alla santità a Bisanzio: “almeno la metà delle venti donne che furono elevate all’onore degli altari tra i secoli VIII e XV era stata sposata e aveva generato figli. Il fatto che una donna entrasse in monastero dopo essere rimasta vedova costituiva a Bisanzio una prassi relativamente normale”. Un esempio di questo percorso è Teodora di Tessalonica, santa del IX secolo. “Nata ad Egina, fu costretta insieme al padre e al marito ad abbandonare l’isola egea a seguito delle incursioni arabe. La famiglia di Teodora rifugiati si sistemò a Tessalonica, dove poteva contare sull’aiuto dei parenti, tra i quali vanno annoverati un prelato altolocato e due badesse. La vita di Teodora fu, tuttavia, segnata dal dolore: due dei suoi tre figli, infatti, morirono in tenera età. Grata per la sopravvivenza della terza figlia, la donna la consacrò alla vita monastica con il nome di Teopista (“fedele a Dio”). Dopo la morte del marito, la vedova, appena venticinquenne, prese lei stessa i voti, nel cenobio consacrato a santo Stefano diretto dalla sua parente Anna. La giovane Teopista la seguì nello stesso monastero”. La vita di Teodora nel monastero fu semplice e senza fatti degni di nota. Solo tre episodi, sui quali si fonda la sua santità, vengono menzionati: il primo riguarda il rapporto con la figlia. “Teodora trovava difficile vincere il proprio sentimento materno per la figlia e non cessava di preoccuparsi circa il vestiario e la dieta di questa”. Siccome i richiami della badessa non davano frutto, essa ordinò che Teodora e Teopista dividessero la stessa cella, ma proibì loro di parlarsi. Per quindici anni le due donne pregarono, lavorarono al telaio e macinarono il grano insieme, senza scambiarsi una parola sino a quando la badessa si ricredette e concesse loro la facoltà di conversare. Teodora così, nota l’agiografo, smise di considerare Teopista sua figlia, ma prese a trattarla come una delle tante monache del monastero”. Un secondo episodio riguarda l’esercizio dell’ubbidienza: “un giorno, poiché un calderone d’acqua si era rovesciato e aveva bagnato il pavimento, ella aveva spostato il proprio letto in un luogo asciutto, senza chiedere il permesso alla badessa”. Per questa infrazione alla regola monastica “la madre superiora costrinse Teodora a trascorrere la notte nel cortile, nel bel mezzo di una tempesta di neve. Teodora accettò la punizione senza sollevare alcuna protesta e imparò la lezione della perfetta ubbidienza”. Il terzo episodio segnalato “consiste nella cura premurosa che la monaca riservò all’anziana badessa Anna, che si era dislogata il femore e aveva perso il senno a causa dell’età. Nonostante l’ingratitudine e le ingiurie della badessa, Teodora la soccorreva in ogni cosa (...)”. Alla morte di Teodora iniziò la venerazione della sua persona, accadde una serie di guarigioni e di fatti portentosi, come ad esempio l’olio con poteri miracolosi che cominciò a sgorgare dalla lampada che bruciava sopra la sua tomba.

 

Le sante madri di famiglia e la carità per i poveri.

“(...) nel corso dei secoli IX e X emerge una nuova tipologia di santa, quella della madre di famiglia che conquista la santità senza mai abbracciare lo stato monastico”. Malgrado il numero ristretto di esempi, ciò segnala un’evoluzione nella definizione dei criteri di discernimento della santità. “Teocleto, che visse al tempo dell’imperatore Teofilo, era rinomata per lo studio delle Scritture, la generosità delle elemosine e la solerzia nella cura della famiglia e dei domestici. Teofano, la prima moglie dell’imperatore Leone VI (886-912) e madre di una figlia, era ben nota per l’impegno profuso nelle attività di tipo caritatevole.

Le sante vite di Maria la Giovane e di Tomaide di Lesbo presentano un ulteriore elemento caratterizzante, consistente nei maltrattamenti che esse subirono da parte dei mariti, mal disposti ad accettare le loro pratiche devote e caritatevoli.

Maria la Giovane, morta nel 903, fu madre di quattro figli, di cui solo due raggiunsero l’età adulta. “Godeva grande fama per il suo ascetismo, per le sue opere di carità e per l’umanità con la quale trattava gli schiavi domestici (...). Mostrava il suo amore verso il prossimo pagando le tasse arretrate dei suoi concittadini, offrendo ospitalità ai monaci di passaggio, soccorrendo le vedove e gli orfani. Il marito Niceforo riteneva che la filantropia della moglie fosse eccessiva e accusò questa di sperperare il patrimonio familiare. In effetti, Maria spese per le sue donazioni esclusivamente il patrimonio della sua eredità. Niceforo mal interpretò, inoltre, la gentilezza che la moglie mostrava verso gli schiavi e l’accusò di adulterio; la rinchiuse nella propria stanza e un giorno, in preda all’ira, la prese a frustate in maniera selvaggia. Maria cercò di schivare i colpi del marito, ma inciampò, cadde e si ferì mortalmente alla testa”. Dopo la sua morte “accaddero numerosi miracoli e il suo culto crebbe, anche grazie agli sforzi promozionali del marito e dei due figli. Col passare del tempo, Niceforo si rese conto di aver maltrattato la moglie e cercò di redimersi onorandone la memoria”.

 

Tomaide di Lesbo non aveva figli, apparteneva a una classe sociale inferiore a quella di Maria e viveva a Costantinopoli. “Tesseva e vendeva la stoffa che produceva per trovare i soldi da donare ai poveri, distribuiva i suoi stessi vestiti ai mendicanti, dava cibo agli orfani e prestava soldi ai debitori. Stefano, suo marito, era più violento di quello di Maria e la picchiò senza pietà per tredici anni, infuriato per i suoi ‘sperperi’. Quando Tomaide morì a 38 anni in seguito alle percosse del marito, la salma venne sepolta nel monastero guidato da sua madre, dove si andò organizzando un culto attorno alla sua tomba. A differenza di Maria, Tomaide compì numerosi miracoli in vita (...). Queste guarigioni prodigiose continuarono ad avere luogo anche dopo la morte di Tomaide: i pellegrini che si recavano alla sua tomba, infatti riuscivano a liberarsi dalle proprie afflizioni”.

 

Possiamo concludere con le seguenti osservazioni.

“Qualsiasi trattazione della santità femminile a Bisanzio deve sottolineare il fatto che i santi -uomini e donne- canonizzati nei secoli dell’era bizantina non godettero mai una devozione popolare paragonabile a quella che conobbero, invece, i primi santi dell’era cristiana. A giudicare dal numero di manoscritti delle Vite tramandati e dalla frequenza delle loro rappresentazioni nella decorazione monumentale delle chiese, nelle icone e nei sigilli, le sante più popolari dell’era bizantina furono quelle dei primi secoli del Cristianesimo: le martiri, le monache travestite e le prostitute pentite.

Le donne canonizzate successivamente, durante la media e tarda età bizantina, non furono mai oggetto di un culto pienamente sviluppato. La loro venerazione, promossa principalmente dai familiari, rimase locale e fu, in genere, di breve durata”.

 

Si può d’altra parte osservare che “le Vite di quelle poche donne che furono elevate agli onori degli altari risultano particolarmente interessanti poiché aprono uno squarcio sull’atteggiamento bizantino nei confronti dello ‘status’ femminile. Inoltre, questi testi sono ricchi di informazioni circa l’organizzazione domestica a Bisanzio, la vita spirituale delle donne laiche, la vita difficile delle mogli ingiuriate da mariti violenti, la ‘routine’ quotidiana dei monasteri e lo sviluppo dei culti popolari. Le attuali conoscenze sulla vita quotidiana delle donne bizantine sarebbe di gran lunga più scarsa senza l’ausilio di queste biografie sacre che, per così dire, aprono uno spiraglio sulla vita del chiostro e delle case della gente comune”.

 

dal sito: http://www.caritas-ticino.ch/Riviste/elenco%20riviste/riv_9901/21-donne%20sante.htm



[1] Le citazioni sono tratte da TALBOT, Alice-Mary - Essere donna e santa, Catalogo della mostra “Oriente Cristiano e Santità”, Ed. Centro Tibaldi, Milano-Roma, 1998 - pagg. 61-68.
[2] Civiltà bizantina: si estende grosso modo tra il VI (caduta dell’Impero Romano d’Occidente) e il XVI secolo (invasione turca), nell’area geografica che va dal Mediterraneo fino agli Urali, con influssi in Spagna e Italia. Capitale dell’impero fu Bisanzio (Costantinopoli). Per una trattazione estesa vedi KAZHDAN, Alexander “Bisanzio e la sua civiltà”, Ed. Laterza, 1995
[3] Iconodulo: opposto a iconoclasta (= che combatte la venerazione delle immagini sacre)

mercoledì 22 maggio 2013

Traslazione delle reliquie di san Nicola


“Traslazione del corpo di san Nicola”, miniatura tratta dal codice ‘Vite dei Santi’
(secondo quarto del XIII secolo), British Library, Londra
 

Traslazione delle reliquie di san Nicola il Taumaturgo da Mira a Bari nel 1087

9 (22) maggio
 
 
La Traslazione delle reliquie di S. Nicola è forse l'evento più notevole nella storia dello sviluppo del culto nicolaiano nel mondo. Ciò non significa, come molti erroneamente scrivono ancora oggi, che il culto di S. Nicola si è diffuso in Occidente grazie al trafugamento delle reliquie nel 1087 ad opera di 62 marinai baresi. Infatti, è vero esattamente il contrario: i marinai baresi scelsero le reliquie di S. Nicola per risollevare il prestigio religioso e commerciale della loro città proprio perché nell'XI secolo questo Santo godeva anche in Occidente di un primato nella venerazione dei fedeli. Indubbiamente, la Traslazione incrementò questa venerazione grazie al fatto che in Europa vigeva una specie di Commonwealth normanno. Gli antichi Vichinghi, con le loro ramificazioni, erano infatti di casa in Francia, in Inghilterra, nell'Italia Meridionale e nella Rus' di Kiev. Di conseguenza l'impresa dei Baresi fu conosciuta in Europa con la rapidità del vento. Alle due dettagliate relazioni baresi (di Niceforo e Giovanni Arcidiacono, entrambe del 1087-1088) si aggiunsero nel giro di una decina d'anni una rielaborazione francese ed una russa. Senza contare che quasi tutte le cronache e tutti gli annali di ogni paese riportarono la notizia. Tra il 1096 ed il 1099 anche i Veneziani e i Genovesi fecero una puntata a Mira, prelevando altre reliquie. Queste imprese però non ebbero la ripercussione internazionale che aveva avuto quella barese. In particolare i Veneziani più tardi cercarono di avallare il successo della spedizione affermando anch'essi di aver portato via S. Nicola. Certo è che questo evento non ebbe alcuna ripercussione nella vita dei Veneziani (non ci è pervenuta alcuna pergamena dei secoli XII e XIII che ne attesti la realtà). La traslazione barese, invece, ebbe un impatto straordinario sia a livello internazionale che locale (non solo dal punto di vista sociale e religioso, ma anche che documentario).
 
 
 
Gerardo Cioffari, o. p.
LA TRASLAZIONE DI S. NICOLA
NELLE FONTI LATINE DELL’XI SECOLO
E NELLE FONTI RUSSE
Conferenza tenuta al Pravoslavnyj Svjato-Tichonovskij Bogoslovskij Institut
Mosca, aprile 2003
ПЕРЕНЕСЕНИЕ МОЩЕЙ СВ. НИКОЛАЯ
В ЛАТИНСКИХ ИСТОЧНИКАХ 11ого ВЕКА
И В РУССКИХ РУКОПИСЬЯХ
Una delle più caratteristiche manifestazioni della religiosità medioevale è la venerazione delle reliquie dei santi, strettamente collegata ai pellegrinaggi. La diffusione però del fenomeno non va di pari passo col fondamento documentario, né con la precisione critica e cronologica dei dati[1]. Lo scopo dell’agiografo non era quello di informare e dare notizie storiche, bensì di offrire un esempio di vita cristiana da ammirare ed imitare. La maniera più ricorrente per dare prestigio alla propria città, nonché per ravvivare il culto di un santo, era quella di trasferirne le reliquie da un luogo all’altro, oppure di ritrovare le reliquie dopo un periodo di dimenticanza.
Il termine translatio sembra che sia stato usato per la prima volta da S. Ambrogio nel IV secolo. Nella mente dei primi cristiani il termine suggeriva l’esperienza di Enoch che, dopo aver tanto camminato con Dio, fu da questi rapito con sé (translato).
Sin dai primi tempi i cristiani avevano cura dei resti dei santi martiri, inizialmente come atto di omaggio verso un amico di Dio che aveva preferito la morte all’apostasia. Poco a poco questo atto di devozione si arricchì di risvolti nuovi, in particolare della convinzione che, come esistevano oggetti in grado di apportare mali, ve n’erano altri in grado di apportare il bene. Le reliquie, sia quelle dei martiri sia quelle dei confessori, cominciarono ad essere considerate portatrici di nascoste virtù e quindi in grado di operare miracoli.
1. S. Nicola e le traslazioni di reliquie nell’Occidente medioevale.
Nella Chiesa generalmente gli scrittori sacri mettevano in guardia da esagerazioni che rasentavano la superstizione. Ma questi richiami non riuscirono a fermare il movimento delle reliquie. Inventiones e translationes cominciarono a moltiplicarsi, e non di rado si ricorreva ad un vero e proprio commercio, come alcuni vescovi di Benevento, che partivano per lunghi viaggi in Inghilterra allo scopo di piazzare alcune ossa di S. Bartolomeo[2].
Se in oriente lo spostamento del corpo di un santo era cosa comune già dalla fine del IV secolo, in occidente varie testimonianze indicano che si è stati molto reticenti a qualsiasi trasferimento, almeno fino al VII secolo. Nell’VIII secolo la mentalità cominciò a cambiare e nel IX non solo si ammetteva il trasferimento ma addirittura il furto.
Lo storico Eginardo, amico e biografo di Carlomagno, narra in versi la traslazione delle reliquie dei Santi Marcellino e Pietro da Roma a Saligenstadt nell’827. Si trovava nelle catacombe di Roma, quando si imbatté nel sarcofago di questi due santi. Appena espresse il suo desiderio di portare le reliquie con sé, il suo servo si diede da fare per forzare l’apertura e se ne impadronirono. Più tardi, lo stesso scrittore, nella sua Translatio Marcellini et Petri, non mostrava alcun rimorso per il furto, che gli appariva meritorio ai fini di incrementare la devozione dei due santi[3].
Senza voler ridurre il tutto a “politica”, va tenuto presente anche l’inquadratura storico-ideologica, cosa che viene messa in risalto specialmente dagli studiosi laici. Ad esempio, la traslazione di S. Marco a Venezia è stata inquadrata nella tensione sorta fra l’antico patriarcato di Aquileia e la nuova sede di Grado, vale a dire la nuova sede episcopale di Venezia. Nel sinodo di Mantova dell’827 vennero confermati i diritti di Aquileia, per cui la nascente potenza marinara dovette escogitare qualcosa che desse dignità e prestigio alla nuova sede. Ed anche l’inventio delle sue reliquie nel 109, poco dopo la ricostruzione della Basilica (1063) risponderebbe a questa logica[4].
Anche per la traslazione di S. Nicola si è tentata l’interpretazione “politica”, a partire da una congettura dello studioso tedesco W. Holtzmann[5], secondo il quale l’arcivescovo della traslazione Ursone avrebbe forse aderito allo scisma provocato dall’antipapa Wiberto, vescovo di Ravenna (Clemente III). Appropriatosi di questa ipotesi Giuseppe Praga[6], non resistette alla tentazione di farne un grosso studio il canonico Nitti di Vito[7]. Come giustamente rileva il Pertusi, tutti questi storici hanno “costruito un vero romanzo su questo punto”[8]. Tutto preso dal suo furore a favore dell’ortodossia romana, infatti, il Nitti ha alterato tutta la storia. Di Ursone, l’uomo di fiducia del Guiscardo, ne ha fatto il capo del partito bizantino barese. Elia diventa il restauratore del partito gregoriano e persino il metropolita di Kiev Efrem partecipa con la sua fedeltà a Roma alla ripresa gregoriana. Tutte distorsioni della verità che devono spingere gli interpreti dei fenomeni religiosi ad una maggiore prudenza nel collocarli nelle locali tensioni politiche e sociali.
Ad evitare resistenze negli ambienti avversi, vari autori di traslazioni ricorsero ad una giustificazione mediante sogni e visioni che attestassero come l’impresa fosse permessa o addirittura voluta da Dio o dal santo in questione. Qualche esempio illustrerà il concetto.
L’Historia Translationis S. Benedicti fu composta dal monaco Adrevaldo nel IX secolo. Ivi si narra che il corpo di S. Benedetto e S. Scolastica furono rubati da Montecassino alla fine del VII secolo (nel 672 o, secondo altri, nel 703) e portati al monastero di Fleury. La circostanza del furto è data dal saccheggio operato dai longobardi e dallo zelo di un sacerdote francese di passaggio, al quale Dio e S. Benedetto parlano in sogno indicandogli il luogo di sepoltura ed esortandolo a portare in salvo le reliquie. Le reliquie di S. Benedetto restarono a Fleury mentre quelle di S. Scolastica furono portate a Le Mans. La translatio fu possibile dunque anche grazie alle visioni in sogno dell’abate Mummolo e del clero di Le Mans[9].
Anche la Translatio S. Bartholomaei è legata ad una invasione, nel caso specifico di Saraceni. Trasferite da Martyropolis in Mesopotamia dall’imperatore Anastasio I (verso il 507), le reliquie erano finite miracolosamente nell’isola di Lipari, secondo narra Gregorio di Tours[10]. Secondo alcune fonti, queste isole furono saccheggiate dai Saraceni, i quali vollero per dispregio estrarre diverse reliquie, comprese quelle di S. Bartolomeo, e le dispersero in mare. Altre fonti dicono invece che il principe Sicardo di Benevento riuscì ad anticiparli ed a sottrarre le preziose reliquie grazie all’aiuto di marinai amalfitani, ed a portarle onorevolmente a Benevento ove furono reposte nella cattedrale di Santa Maria[11]. Nel suo Chronicon Sigeberto rapporta l’avvenimento all’831. Più correttamente Leone Ostiense parla dell’839 (terzo anno dell’abate Barsacio). L’imperatore Ottone III tuttavia diede ordine (983) di trasferire il corpo a Roma dove sull’isola Tiberina fu costruita una chiesa in onore dell’Apostolo. I Beneventani sostengono (e Leone Ostiense sembra aver loro creduto) che quando giunsero i messi imperiali essi consegnarono un altro corpo, per cui ancora oggi S. Bartolomeo si troverebbe non a Roma bensì pur sempre a Benevento.
Praticamente contemporanea fu la traslazione di S. Marco da Alessandria a Venezia. Il culto dell’Apostolo nella zona è attestato da Paolo Diacono, che addirittura lo considerava primo apostolo dei Veneti. Il documento chiave che ha dato adito alla letteratura marciana è il testamento di Giustiniano Particiaco dell’829, che contiene l’espressione De corpus vero beati Marci[12], attestante in qualche modo la presenza del Santo a Venezia. La Translatio vera e propria fu composta due secoli dopo nel contesto di analoghe narrazioni. Tenendo conto del dato di cui sopra, nonché del fatto che nel Martirologio di Beda S. Marco è considerato ancora ad Alessandria, si immagina che fu translato da alcuni mercanti veneziani verso l’827. Un forte indizio negativo della storicità dell’evento è dato dall’assenza del nome Marco nella popolazione anteriormente all’anno Mille[13]. Dopo qualche esitazione, se riconoscere S. Nicola o S. Marco come patrono di Venezia, nel 1071 si optò per S. Marco a seguito, come sostiene una tardiva narrazione, dell’inventio del suo corpo nella Basilica (il Santo stesso, apparso ai fedeli, avrebbe indicato il luogo della sua reposizione). Come i Romani contestano ai Beneventani il corpo di S. Bartolomeo, così i cittadini di Reichenau contestano S. Marco ai Veneziani, essendo giunto a loro dire nella città nell’890.
Oltre un secolo dopo, cioè in pieno X secolo, si ha un’altra traslazione famosa, quella di S. Matteo da Paestum (come e quando vi giunse?) a Salerno (954). Nel 1080 ebbe luogo l’inventio delle reliquie, che spinse il Guiscardo a costruire una nuova cattedrale, consacrata dal papa Gregorio VII. Secondo lo studioso Francesco Spadafora, la lettera che questo pontefice, il 18 settembre 1080 scrisse a S. Alfano, allora arcivescovo di Salerno, per felicitarsi con lui per il ritrovamento del corpo di S. Matteo (Jaffé-Wattenbach, n. 5180), è un documento storico ineccepibile[14]. E indubbiamente il documento dimostra che c’è stata l’inventio e che il Guiscardo ha costruito la cattedrale. Da questo però a dire che l’inventio corrisponde alla scoperta del vero S. Matteo Apostolo che camminava per le strade della Galilea, ce ne corre. Nel nostro caso, infatti, ammesso che Matteo si trovasse effettivamente a Paestum, è molto improbabile che la reposizione del corpo nel 954 a Salerno sia stata poi dimenticata e poco più di un secolo dopo il corpo sia stato scoperto. E’ improbabile sia per l’importanza del Santo, apostolo ed evangelista, che di Salerno che era la potente capitale dell’omonimo principato, che quindi non aveva alcuna ragione a che per le tristi condizioni dell’epoca, fosse tenuto accuratamente nascosto.
In tutte queste narrazioni vi sono dei luoghi comuni agiografici ricorrenti: sogni, visioni, furti, sacerdoti che partecipano, miracoli che comprovano. Spesso c’è l’inventio, il ritrovamento dopo un periodo di dimenticanza e di abbandono. Il fatto stesso dei luoghi comuni tuttavia non deve indurre allo scetticismo, in quanto rientravano quasi nello stile narrativo. E’ necessario invece procedere alla critica storica prescindendo da essi e indagando sull’eventuale esistenza di comprobanti elementi esterni. In tal senso, fra le traslazioni medioevali la meglio documentata è certamente quella di S. Nicola da Mira a Bari.
La storia della traslazione delle reliquie di S. Nicola ci è pervenuta in un corpus di fonti molto ricco nel numero e nei generi letterari, oltre che particolarmente interessante a motivo dell’antichità delle fonti stesse, quasi tutte coeve o di poco posteriori all’avvenimento. L’avvenimento è stato descritto in vere e proprie narrazioni storiche, in testi liturgici, in annali di varie nazioni oltre che in numerosi atti privati conservati in pergamena nell’Archivio della Basilica di S. Nicola.
Le principali narrazioni storiche sono quattro: due baresi (totalmente originali), una francese ed una russa (in parte dipendenti dalle baresi, in parte con elementi originali). I testi liturgici nel mondo latino si riferiscono soprattutto all’ufficio, che per le letture utilizza le suddette fonti baresi. Più ricchi sono i testi liturgici russi, che oltre all’ufficio comprendono anche degli encomi. Il terzo genere letterario, quello degli annali, riguarda quasi tutte le nazioni europee. All’anno 1087 (talvolta con qualche variante) tutti riportano la traslazione di S. Nicola da Mira a Bari, magari ignorando l’ubicazione geografica di questa città. Gli atti privati si trovano ovviamente soltanto a Bari, nel ricco archivio di S. Nicola, di cui sono il direttore.
2. Il racconto di Niceforo Сказание Никифора (1088)
La narrazione di Niceforo è forse il primo testo che fu scritto per riferire le varie fasi della vicenda. L’autore potrebbe essere il protonotaio Nikiforus che stende parecchi atti nell’arco di tempo che va dal 1094 al 1108[15]. Con ogni probabilità fu scritto su incarico della intraprendente borghesia cittadina nostalgica del periodo d’oro appena trascorso e timorosa delle novità apportate dai normanni, i quali avevano privato la città del suo ruolo di capitale dell’Italia bizantina.
Solo due anni prima (1085) era morto Roberto il Guiscardo, il conquistatore normanno che nel 1071 aveva messo fine alla dominazione greco-bizantina nell’Italia meridionale (proprio con la conquista di Bari) e pochi mesi dopo alla dominazione mussulmana in Sicilia. La duchessa Sykelgaita, sua seconda moglie, era riuscita ad ottenere dai conti normanni il riconoscimento del figlio Ruggero Borsa come duca di Puglia. Insoddisfatto era rimasto però Boemondo, figlio della prima moglie del Guiscardo. Dopo forti contrasti ottenne dal fratello il possesso della metà meridionale della Puglia. E mentre Ruggero guardava a Salerno, Boemondo guardava verso l’Oriente, che insieme al padre aveva tentato di conquistare. Così, con Boemondo che si limitava ad amministrare Bari per mezzo di un suo vicario (catapano), la borghesia cittadina fremeva per mantenere il benessere che sembrava destinato a scomparire a causa della perdita del ruolo politico della città.
Il personaggio più rappresentativo di questa “classe politica”, intraprendente e desiderosa di non perdere i privilegi acquisiti durante la precedente dominazione, era il patrizio Curcorio, possibile variante per Gregorio. Fu proprio lui, nell’intento di fare conoscere il carattere laico ed imprenditoriale dell’impresa, ad incaricare Niceforo di stenderne la narrazione[16].
A parte qualche libertà agiografica, il racconto procede col ritmo del diario ed è veramente attendibile in quanto l’autore, che si definisce “clericus”, ebbe modo di apprendere i dettagli della vicenda direttamente dai naviganti e commercianti che compirono l’impresa.
Il suo racconto ci è pervenuto in tre redazioni, quella beneventana, quella vaticana e quella greca. La redazione beneventana[17] sembra essere quella originaria, in quanto rispetto alla vaticana presenta maggiori dettagli e soprattutto i nomi dei marinai con la loro disposizione sulle tre navi. Quella vaticana[18], edita dal Falconio, è praticamente la stessa, con l’omissione di parecchi dettagli. Quella greca[19] è vicina a quella vaticana, ma esprime sentimenti chiaramente antinormanni, cosa che non appare nelle altre due redazioni.
La struttura della recensione beneventana è la seguente:
  1. Prologo
  2. Viaggio commerciale ad Antiochia, dove ci sono anche i Veneziani
  3. Un greco e un francese perlustrano la zona e 47 marinai sbarcano (nomi)
  4. Discussione con i 4 monaci. I baresi dicono che Nicola è apparso al papa.
  5. I monaci sono bloccati. Miracolo dell’ampolla che cade e non si rompe.
  6. Monaco minacciato di spada. Un altro monaco rivela l’avvertimento di Nicola ai miresi (se non tornano in città dai monti, li abbandonerebbe presto).
  7. Matteo rompe il pavimento in corrispondenza del sarcofago.
  8. Matteo rompe la lastra ed il profumo giunge fino al mare.
  9. Matteo consegna ai 2 preti le reliquie, mentre i monaci si lamentano.
  10. Tornano alle navi con le reliquie trasportate dal prete Drogone.
  11. I miresi accorrono al porto. Gridano e singhiozzano.
  12. Furto delle reliquie e navigazione difficile tra Kekowa, Maestra, Patara e Perdicca. Restituzione e ricomposizione.
  13. Mare calmo. Toccano Marciano, Ceresano, Milo (uccellino che volteggia), Stafnu-Bonapolla, Geraca, Monemvasia, Metone, Sukea, S. Giorgio, Bari.
  14. Gioisci o Bari…; esortazione alla penitenza. Arrivo a Bari.
  15. Dissensi fra chi vuole il santo in cattedrale e chi è per una chiesa nuova.
  16. Le reliquie sono affidate all’abate Elia che le porta in S. Benedetto.
  17. Arriva l’arcivescovo Ursone. Scontro armato. Due morti.
  18. Il corpo è trasferito in S. Eustrazio. Elia dirige i lavori di costruzione.
  19. Miracoli (la notte dell’arrivo 47 persone). Il martedì, 9. Mercoledì 29.
  20. Giovedì: visione al venerabile monaco; venerdì: processione; sabato 11.
  21. Altri miracoli (solo recensione beneventana): scavatori sepolti, sanati da Camerino, Amalfi, Siponto.
Come si vede, a parte alcuni momenti a carattere agiografico-poetico (ampolla, sogni, uccellino), Niceforo segue un procedimento ispirato allo stile cronachistico, la cui attendibilità sostanziale è assoluta. Solo in qualche particolare di poco conto possono osservarsi delle discordanze dalle fonti esteriori. D’altra parte, garanzia di credibilità è anche la composizione precoce, vale a dire solo pochi mesi dopo l’avvenimento. Infatti, nel suo racconto si fa riferimento all’episcopato di Ursone come ancora non giunto al termine. Elia, eletto arcivescovo dopo la morte di Ursone (14 febbraio 1089) è detto soltanto abate. Per cui la composizione dell’opera va collocata nell’arco di tempo che va dal luglio 1087 (si parla infatti dell’inizio dei lavori di costruzione della chiesa) al 14 febbraio 1089. Dato però che l’analogo racconto di Giovanni Arcidiacono è una “risposta” a quello di Niceforo, è chiaro che il testo di Niceforo fu portato a termine negli ultimi mesi del 1087 o al massimo nei primi mesi del 1088.
Un discorso a parte va fatto dunque per i miracoli conclusivi, successivi alla costruzione della Basilica (si parla infatti di una chiesa grande e splendida già costruita). Ora, dato che fino al 1103 i documenti parlano di una chiesa aedificanda (in costruzione), e solo dal 1103 è detta constructa, tali miracoli possono essere stati aggiunti da Niceforo o un suo continuatore soltanto dopo il 1103.
3. Il racconto di Giovanni Arcidiacono (1088)
Considerando lo scontro armato per decidere della collocazione delle reliquie se in Cattedrale (chiesa dell’arcivescovo) oppure in una chiesa appositamente costruita, è comprensibile che al racconto commissionato da un partito venisse contrapposto il racconto della parte avversa. Così, come la borghesia cittadina aveva commissionato il racconto a Niceforo, subito l’arcivescovo Ursone commissionò la sua versione dei fatti a Giovanni Arcidiacono[20], l’uomo di punta della cultura barese della fine dell’XI secolo e capo, come arcidiacono, del capitolo, vale a dire del clero della città stabilmente al servizio della Cattedrale.
Questo scrittore, però, non si accontenta di contrapporsi a Niceforo. E’ consapevole che S. Nicola per la città di Bari è qualcosa di unico. Per cui presenta un prologo che è piuttosto un proclama universale di gioia cristiana: A tutte le chiese di Cristo annunciamo e rendiamo noto con questo nostro scritto i fatti meravigliosi, degni di lode e di venerazione, che Dio onnipotente si è degnato ai nostri giorni di mostrare ai mortali per i meriti del suo servo, il beatissimo Nicola: come cioè il suo sacratissimo corpo sia stato preso dalla metropoli di Mira e portato via dai Baresi per mare fino a Bari.
L’orgoglio dello scrittore sacro, che forse neppure sapeva delle chiese in Russia, si manifesta nell’osservazione che presso tutti i popoli e le regioni, ove si venera Cristo nostro Signore, sono a lui dedicate più chiese che agli altri santi…. Perciò i fedeli debbono festeggiare la ricorrenza della Traslazione con una gioia ed una frequenza non minori di quelle del giorno della sua commemorazione.
Ecco lo schema della sua narrazione:
  1. Prologo e committenza di Ursone
  2. Precedenti tentativi di furto delle reliquie
  3. I marinai pensano al furto ma sono dissuasi dalla presenza saracena a Mira
  4. Ad Antiochia scoprono i progetti dei veneziani e corrono a Mira
  5. Esplorazione. Raggiungono la chiesa e discutono con i monaci (ampolla)
  6. Inviati dal papa. Pronti a pagare. Blocco dei monaci.
  7. Matteo (fonte dell’autore) rompe il pavimento e porge le reliquie, alcuni sottraggono dei pezzetti. Ritorno alle navi, col prete Lupo che porta le reliquie
  8. Dissidio per la scelta della nave. Arrivo e lamento dei miresi.
  9. Difficile navigazione: Kekowa, Maestra, Macri. Reliquie restituite
  10. Prospera navigazione: sogno di Disigio, e uccellino.
  11. Ursone e Giovanni da Trani raggiungono Bari
  12. Lotta intestina fra i cittadini su dove collocare le reliquie
  13. Giunto l’arcivescovo (dopo!), permette che le reliquie siano depositate in S. Stefano costruita tre anni prima.
  14. Ursone affida le reliquie ad Elia e lo incarica della costruzione della Basilica
  15. “Gioisci dunque Bari di una gioia straordinaria, ma nel Signore”
  16. Miracoli dopo la traslazione: reliquie a S. Benedetto più di 30 guariti,
numerosissimi nei giorni successivi. Il paralitico di Ancona. Il sacerdote di Camerino con la gotta (“come egli stesso ci riferì”). Il fanciullino indemoniato di Amalfi. Il fanciullino e la bambina paralitici camminano quando i genitori delusi hanno già lasciato Bari.
Il testo di Giovanni Arcidiacono è dunque assolutamente indipendente da quello di Niceforo. Proprio per dare la versione ecclesiastica dei fatti egli ascoltò personalmente i protagonisti dell’impresa (es. Matteo) oltre che alcuni miracolati. Se Niceforo esalta l’impresa della cittadinanza barese, Giovanni ne esalta il significato religioso. Mentre il primo sottolinea lo scontro con l’arcivescovo, il secondo fa giungere l’arcivescovo dopo i tragici fatti. Il primo rileva la cura del popolo di non fare pervenire le reliquie nelle mani dell’Arcivescovo, il secondo dice che fu l’Arcivescovo ad affidare le reliquie all’abate Elia. Che però Giovanni conoscesse il testo di Niceforo si deduce non soltanto da tutta l’impostazione, ma anche da alcune omissioni (come la maggior parte delle tappe della navigazione) e l’omissione di diversi nomi. E’ evidente che non aveva alcuna intenzione di stare a ripetere cose che i Baresi ben conoscevano dalla precedente relazione.
Sia Niceforo che Giovanni ebbero una enorme diffusione in tutta l’Europa del tempo, e molti scrittori trassero dall’uno o dall’altro molto materiale per i loro lavori. Ad esempio, lo storico normanno Orderico Vitale circa 40 anni dopo, con pochi tagli, riprendeva quasi integralmente il testo di Giovanni[21]. Eccezionale fu la diffusione in Germania, Inghilterra, Paesi Bassi, Svizzera e soprattutto in Francia. Lo strumento di tale diffusione è rappresentato da una specia di Commonwealth normanno che univa la Francia, l’Italia, l’Inghilterra, la Terra Santa e la Rus’ dei Variaghi. Per cui, come dice Giovanni (introducendo i miracoli dopo la traslazione), la fama, mossa da ali leggerissime, trasvolò sempre più lontano. I codici che riportano queste Historiae Translationis non sono ancora stati catalogati in modo definitivo. Quelli di cui io ho notizia, contenenti i testi integrali o parziali, sono più di cento.
4. Il compilatore franco-gerosolimitano (1095 circa)
Fra le fonti parzialmente indipendenti c’è quella cosiddetta “gerosolimitana”[22]. Alcuni studiosi, come Agostino Pertusi, la considerano una variante di Niceforo e quindi la classificano come una quarta redazione dello scrittore barese[23]. La tesi è più che legittima, considerando che nel Prologo l’autore si presenta come Niceforo e i primi tre capitoli sono presi quasi letteralmente da Niceforo. Tuttavia i capitoli 4-9 contengono interi testi di Giovanni Arcidiacono (tentativi di furto falliti e cronologia del Santo). Vari particolari nuovi dà poi l’autore a proposito del soggiorno ad Antiochia e la preparazione dello sbarco a Mira. Quindi riprende con il testo di Niceforo. L’appellativo di franco gli deriva da un particolare. Quando descrive il contrasto coi monaci, in prima fila non pone solo Matteo (come in Niceforo e Giovanni), ma un altro giovane guerriero, tale Alessandro, discendente da una famiglia della regione dell’Alvernia (cap. 20-23). Quindi riprende il testo di Niceforo, con qualche dettaglio in più in occasione dell’arrivo a Bari. Al cap. 37 è riportato anche il sogno del venerabile monaco sul futuro catapano della Puglia (S. Nicola), che presenta qualche analogia con lo Slovo russo. Infine, numerose sono le novità nei capitoli conclusivi che si soffermano prima sul Santo (capp. 38-40), poi sui miracoli (capp. 41-45).
5. Annali e cronache latine
Lo studioso americano Charles William Jones ha recentemente sottolineato il primato della traslazione di S. Nicola a bari dal punto di vista della ricchezza della documentazione: Translation of relics elicit documents to authenticate the event and to be read at public commemoration, … but no saint’s translation has been graced with such international documentation as Saint Nicholas’. Practically every western chronicler of the generation reported this event of 1087.[24]
A parte le Historiae di cui si è parlato, il mezzo più comune con cui l’uomo medioevale venne a conoscenza dell’impresa barese fu quello degli annali. Con qualche piccola variante, tra il 1087 ed il 1090 quasi tutti i cronisti riportarono la notizia, diffusa forse anche dal movimento verso l’Oriente messo su in occasione della Prima Crociata. Gli annali più antichi ad includere la traslazione di S. Nicola tra gli avvenimenti sono stati pubblicati quasi tutti nella grande raccolta dei Monumenta Germaniae Historica (MGH):
Annales Farfenses (661-1099), a. 1087 (MGH XI, p. 589)
Annales Lupi Protospatharii (855-1102), a. 1087 (MGH V, p. 62)
Annales Augustani (973-1104), a. 1087 (MGH III, p. 133)
Hugonis Floriacensis Liber (fino al 1108), a. 1087 (MGH IX, p. 392)
Annales Ottenburani (1040-1111), a. 1087 (MGH V, p. 8)
Sigeberti Gemblacensis Chronicon (381-1111), a. 1087 (MGH VI, pp. 365-366)
Anonymi Barensis Chronicon (604-1118), a. 1087 (RIS, V, p. 154)
Lamberti Audomarensis Chronicon (919-1120), a. 1087 (MGH V, p. 66)
Annales Leodienses continuatio (1055-1121), a. 1087 (MGH IV, p. 29)
Annales Rosenveldenses (1057-1130), a. 1087/1088 (MGH XVI, p. 101)
Annales Beneventani (759-1130), a. 1087 (MGH III, p. 182)
Auctarium Claustroneoburgense (1072-1134), a. 1090 (MGH IX, p. 628)
Chronicon Monasterii Casinensis (Pietro Diacono, 1075-1138), a. 1087 (MGH VII, p. 750)
Annalista Saxo (742-1139), a. 1087 (MGH VI, p. 724)
Auctarium Garstense (450-1139), a. 1094 (MGH IX, p. 568)
Annales Admuntenses (453-1139), a. 1094 (MGH IX, p. 576)
Annales Cavenses, a. 1087 (MGH III, p. 190)
Annales Sancti Jacobi, a. 1087 (MGH XVI, p. 639)
Ai dati cronachistici bisogna aggiungere una serie di elementi che si trovano in testi storici o biografici che non descrivono la traslazione barese, ma che vi fanno più o meno esplicito riferimento. Trattasi di una serie di testi legati a due grandi avvenimenti che ebbero luogo durante gli anni di costruzione della Basilica: il passaggio dei grandi cavalieri della prima crociata nell’ottobre del 1096 e il concilio di Bari nell’ottobre del 1098 (secondo il computo barese rispettivamente 1097 e 1099). I più importanti di questi non sono non soltanto coevi, ma hanno quale autore un testimone oculare. Così, ad esempio, Fulcherio di Chartres, autore della più importante storia della prima crociata, scrive:
Nos autem per mediam Campaniam et Apuliam euntes, pervenimus Barum, quae civitas optima, in maris margine sita est ; ibique ecclesia Sancti Nicolai fusis ad Deum precibus nostris, portum tunc adeuntes, sine mora transfretare putavimus[25]. Testimone oculare fu anche quel Roberto Monaco autore dei Miracula (nei quali S. Nicola ha gran parte), ma che è più famose per un’altra opera sulla prima crociata[26]. Testimone oculare e parte in causa fu anche lo scrittore inglese Eadmer, segretario personale di S. Anselmo di Canterbury al concilio di Bari, un concilio tenutosi ante corpus beati Nicolai[27]. Il segretario di S. Anselmo offre un quadro molto ricco della situazione della Basilica nel 1098, più di sfuggita nella prima Vita del Santo[28], più dettagliato nella seconda.
Sulla scia di Eadmer sostanziosi riferimenti alla traslazione barese contiene anche William of Malmesbury nella sua storia dei vescovi inglesi[29] e soprattutto Orderico Vitale nella sua Storia ecclesiastica[30]. Anzi, quest’ultimo riporta anche un episodio relativo al furto di una reliquia del Santo da Bari. Egli narra infatti che Stefano, un cantore di un monastero in costruzione presso Anjou, col permesso del superiore si recò a Bari, riuscendo a conquistarsi la simpatia e la fiducia di uno dei custodi dell’altare del Santo. Riuscì così a rubare il braccio di S. Nicola col quale si benedicevano i pellegrini e che non era stato riposto con le altre reliquie del Santo, ma era conservato in un reliquiario d’argento presso la tomba del Santo. La cosa fece scalpore e per totam Italiam et Siciliam famam volitavit. Stefano pervenne così a Venezia, senza però riuscire a mantenere il segreto. Eremperto, ex guerriero normanno fattosi monaco, scoprì la reliquia e se ne appropriò con la forza, donandola poi al monastero della Trinità. Un’altra reliquia (dente e pezzettini del sarcofago), sempre secondo Orderico Vitale, riuscì ad ottenere anche il normanno Guglielmo Pandolfo, ricco e famoso, giunto a Bari nel 1092.
In Inghilterra comunque la traslazione di S. Nicola doveva essere abbastanza nota non soltanto per i contatti con Bari di S. Anselmo di Canterbury e le relazioni degli storici suddetti, ma anche per un poemetto proveniente da un’abbazia del Sussex, fondata da Guglielmo il Conquistatore. Questo poemetto, che potremmo chiamare Pianga il popolo di Grecia, narra in versi sinteticamente la storia della traslazione a Bari, con elementi che provengono da Niceforo[31].
6. Testi liturgici
Non sembra esistere un atto ufficiale di istituzione della festa della traslazione da parte del papa Urbano II. Con ogni probabilità non ci fu alcun atto in tal senso, lasciando la sua celebrazione all’iniziativa delle chiese locali. A quei tempi anche la canonizzazione dei Santi era ancora compito della Chiesa locale, come dimostra la canonizzazione del santo greco Nicola Pellegrino da parte della Chiesa di Trani. Che a Bari subito fosse istituita questa festa si evince da tutte le bolle papali, che al momento di specificare quando gli arcivescovi potevano indossare il pallio, oltre alla festa del 6 dicembre veniva indicata anche quella della traslazione del 9 maggio[32].
La mancanza di una istituzione ufficiale ed universale fece sì che ogni chiesa e soprattutto ogni monastero componessero uffici propri. Tali uffici mancano di solito di originalità, poiché si limitano ad applicare a Nicola il comune ufficio della traslazione delle reliquie, entrando nello specifico solo con le letture del Mattutino. A questo punto alcuni testi liturgici estraggono brani integrali da Niceforo o da Giovanni Arcidiacono, alcuni si limitano a sintetizzarli. Ovviamente dal punto di vista contenutistico non vi sono novità. Non vanno però dimenticati gli inni composti in onore di questa festa, e che parzialmente sono stati pubblicati da Clemens Blume e Guido M. Dreves[33]. In un responsorio Ad nocturnum si collega la traslazione alla santa manna:
Gemma beatorum / Nicolae, salus miserorum,
Inclite dux Christi, / dum transferri meruisti,
Dulcis odor manat, / tua virtus languida sanat[34].
Sempre all’ufficio del Notturno si riferisce un inno, in cui ancora più esplicito è l’aspetto miracoloso della manna:
Ex ipsius tumba manat / unctionis copia,
Quae infirmos omnes sanat / per eius suffragia,
Sanitati cedit morbus, / fugantur daemonia[35].
In un altro inno che si cantava alle Lodi si metteva in luce la provvidenzialità dell’evento traslazione, nonché la virtù taumaturgica del Santo:
Adest ejus translatio, / Qui in coeli palatio /Angelorum consortio /Fovetur et obsequio
De Myreis litoribus /Barae portatus navibus,/ Membra multorum morbida / dono Dei dat vivida[36].
Un altro inno è quasi una sintesi storica in versi secondo lo schema secondo il quale il primo versetto è recitato da tutto il coro: Gratias et laudes Deo / reddamus cum gaudio. Gli altri versetti, 2° e 2b, 3° e 3b, 4° e 4b rappresentano la contrapposizione fra la recita del coro di destra (2°) subito seguita da quella del coro di sinistra (2b) e così via.
2a - In hac festiva die, / cum Barenses Myreum / mare naufragando pervenere
2b – Ex his quidam in portu /remansere, munita / pars venit ecclesiam occurrentes
3a - Dicunt custodibus:/ nos orare venimus, Sepulchrum sancti praesulis / Nicolai
ostendite nobis
3b – Quod servi monstrantes / invadunt hos Barenses, / Fregerunt vas marmoreum, /
senserunt odorem Libani.
4a – Extraxerunt corpus sancti / veste presbyteri, / praetulerunt ad portum navigii.
4b – Tunc per aequor navigantes / Barim deponentes / ubi laudatur, / coelo canitur
Alleluja[37].
Come si può vedere, l’innografia liturgica riflette molto da vicino il ritmo delle rappresentazioni sacre medioevali, di cui Nicola, dopo Cristo e la Madonna, è incontrastato protagonista[38]. Anche se non sempre è facile determinare il rapporto di causa-effetto fra inno liturgico e rappresentazione sacra. E’ superfluo aggiungere che tutti gli antichi libri liturgici latini che riportano la festa della traslazione fanno riferimento unicamente a Bari come luogo di destinazione delle reliquie miresi.
7. Le pergamene dell’Archivio di S. Nicola
Una delle differenze più evidenti fra le comuni traslazioni medioevali e la traslazione di S. Nicola è l’eccezionale ricchezza documentaria del genere di atti pubblici e privati correlati all’avvenimento della traslazione. In altre parole, al di là del suo significato religioso e storico, la traslazione si riflette nella vita quotidiana dei baresi della fine dell’XI secolo dando la netta impressione che ciò che la città aveva potuto ottenere in precedenza grazie al suo ruolo di capitale bizantina, ora lo otteneva agevolmente per il suo ruolo di patria di S. Nicola. Molti documenti tedeschi successivi alla distruzione della città nel 1156 si riferivano ad essa non più come a Bari, ma come al “porto di S. Nicola”.
Tra i documenti pubblici strettamente dipendenti dalla traslazione è opportuno menzionarne almeno quattro, vale a dire
1. Diploma di Ruggero Borsa (giugno 1087) col quale il duca di Puglia, preso atto della traslazione, concede la corte del catepano all’arcivescovo Ursone affinché sia edificata la Basilica in onore del Santo[39].
3. Bolla di Urbano II (5 ottobre 1089), con la quale al termine della reposizione delle reliquie di S. Nicola, concede il pallio all’arcivescovo Elia, iniziando con queste parole: Poiché ai nostri tempi, fratello carissimo, l’Onnipotente Iddio si è degnato di visitare con il corpo del suo beato confessore Nicola la chiesa barese, detta anche canosina… [40]
2. Bolla di Elia, arcivescovo di Bari (novembre 1089), che sottolinea come tutto il popolo (cunctus populus) lo ha incaricato della custodia delle reliquie e della costruzione della Basilica[41]..
Bolla di Pasquale II (18 novembre 1105) con la quale il papa, accogliendo la richiesta di Ruggero Borsa e Boemondo, concede che il clero della Basilica sia dipendente direttamente dalla Santa Sede, e sia quindi esente dalla giurisdizione arcivescovile[42].
Molti documenti sono donazioni a favore dell’abate Elia che già dal luglio 1087 s’era messo a costruire la nuova chiesa e che dal febbraio 1089 appare come arcivescovo della città. Altri atti sono delle compravendite fatte dallo stesso arcivescovo Elia al fine di rendere la Basilica centro di una cittadella compatta.
Fra gli atti privati uno dei documenti più importanti è la pergamena di Leone Pilillo[43], composta un mese dopo la morte dell’arcivescovo Elia per ricordare al successore Eustazio i privilegi concessi da Elia a quei marinari et nautici qui tulimus corpus sancti Nicolai de civitate Mirea et adduximus illud in hac civitate Bari. Tali privilegi erano i seguenti:
  1. Sepoltura lungo la parete esterna della chiesa (extra ecclesiam iuxta parietem).
  2. Sedia (Sedile) in chiesa per sé e per la moglie.
  3. Se diventa chierico, gli si garantisce un beneficio (trasmissibile agli eredi).
  4. Può lasciare l’abito civile ed entrare fra i chierici di S. Nicola.
  5. In caso di impoverimento la chiesa lo sostenterà.
  6. Percentuale sulle entrate delle offerte per la festa della traslazione (9 maggio).
Un interessante problema giuridico presentava il caso di Rigello, un defensus della chiesa di S. Basilio, una delle chiese che furono abbattute per ampliare la Basilica di S. Nicola. Essendo morto senza figli, dell’eredità si appropriarono le sorelle Laita e Grima,. L’avvocato della Basilica le citò davanti al giudice, affermando che essendo S. Basilio nell’area dell’attuale Basilica e Rigello un defensus, la suddetta eredità spettava al clero di S. Nicola. Nell’ottobre del 1099 il giudice emise la sentenza a favore di S. Nicola[44].
Molto importante è anche la pergamena contenente i nomi dei marinai della traslazione[45]. Il documento risale al 1175 circa[46]. Ad ogni nome della prima colonna (marinai della traslazione) corrisponde uno o più nomi nella seconda con la specificazione della situazione attuale dei privilegi, a meno che qualcuno al tempo dell’abate Eustazio (1105-1123) non avesse già rinunciato a tutto a favore della chiesa (pro eo Ecclesiae). Ad esempio, in corrispondenza di Mele de presbytero Basilio si ha: pro eo Stephanus Camelus et Iohannes Camelus. Ad clericos mediam partem. Ciò sta a significare che il marinaio Mele aveva donato o lasciato in testamento I suoi diritti per metà a Stefano e Giovanni Camelo, per metà ai chierici della Basilica.
Altro documento notevole, anche perché conferma una specie di “societas” creatasi fra i traslatori, è la celebre raccolta delle Consuetudini Baresi composta verso il 1205 dal giudice Andrea da Bari. Nel passo relativo afferma: A primis initiis, ex quo custos et patronus noster confessor Nicolaus terram nostram dignatus est inhabitare, primitiva concessione et continuo inveterato usu quidam ex nostris quaedam exenia et quasdam habuerunt in eadem ecclesia splendidissimas sortiones, quas vendere consuevimus, et in aliis dotis et alio quolibet alienationis iure transferre[47].
Da queste pergamene e da molte altre si è potuto anche dedurre l’appartenenza sociale dei marinai della traslazione[48]. Secondo il Babudri dovrebbero classificarsi come segue:
Nauclerii (comandanti o padroni delle navi): 4
Nobiles homines (aristocratici bizantini o longobardi) 13
Presbyteri et clerici (sacerdoti e chierici): 9
Mercatores (mercanti): 9
Naute o marinerii (marinai e ciurma): 26.
Sono ovviamente numeri approssimativi, non potendo meglio qualificare la presenza dei non baresi. Almeno un quarto dei partecipanti non sembra essere stato d’origine barese. Probabilmente, quindi, l’elenco di cui sopra (62 nomi) potrebbe comprendere solo i partecipanti con diritti civili. I servi e gli schiavi, che avrebbero potuto rinfoltire la ciurma, forse non compaiono.
8. Lo Slovo russo (1095 circa).
Importante sotto molti aspetti è anche il racconto russo della Traslazione di S. Nicola che ci è pervenuto in molte redazioni, ove però le differenze sono soprattutto linguistiche. Esso ha attratto l’attenzione anche degli studiosi occidentali, come Francesco Nitti di Vito[49] e Giuseppe Praga[50]. Nel pubblicare il testo del codice Rumjancev nel 1980 avevo notizia di 18 manoscritti russi che contenevano la storia della traslazione. Attualmente la prof.sa Marina Krutova ne ha elencati molti altri. E non ho avuto ancora la possibilità di leggere il testo della Černova sugli aspetti linguistici dello Slovo.
I codici più antichi sinora conosciuti risalgono al XIV secolo e sono stati editi da Iljà Šljàpkin[51]. Altri due codici furono pubblicati da Makarij Bulgàkov[52].I successivi presentano notevoli varianti linguistiche ma non tali da cambiare il filo della narrazione. Il dato principale è che, nonostante le successive rielaborazioni, il nucleo originario è coevo agli eventi baresi perché viene esplicitamente detto: nel nostro tempo, nei giorni ed anni nostri. A questo dato indiscutibile va però affiancato uno che lascia perplessi: la datazione dell’avvenimento al 1087 (Prolog[53] e Gustinskaja Letopis’), al 1088 (Novgorodskaja Tret’ja Letopis’; Tverskaja Letopis’, 6596 dalla creazione del mondo, ma dice anche 1096 dalla nascita di Cristo !)[54], al 1089 (Nikonovskaja Letopis’ e Stepennaja Kniga), al 1095 (Minei di Makarij, e M. Bulgakov 1), al 1096 (Trojckij, Rumjancev, M. Bulgakov 2, nonché Egorov 191 edito dalla Krutova, p. 52). In generale dunque mentre le cronache sono più attente, non così le rielaborazioni dello Slovo che rendono il 6596 della creazionecon il 1096, ignorando che ad essere precisi il 6596 non corrisponde al 1096, bensì al 1088, errore minimo molto diffuso anche in occidente.
Che tale sia la corretta spiegazione si deduce anche dal fatto che, per l’inquadratura cronologica lo slovo menziona l’imperatore bizantino Alessio Comneno (1081-1118), il patriarca Nicola III Grammatico (1084-1111), Vsevolod Jaroslavič di Kiev (1078-1093) e Vladimir (Monomaco) a Černigov (1078-1094). Laddove, mentre il 1087 e 1088 rientra agevolmente negli anni in carica di questi quattro personaggi, il 1096 è perentoriamente escluso dagli anni in carica dei due principi russi.
Gli elementi costanti sono dunque:
1. Inquadratura cronologica (Alessio imperatore, Nicola patriarca, Vsevolod di Kiev e
Vladimir di Cernigov).
2. Saccheggi e desolazione ad opera dei Saraceni.
3. Sogno del santo sacerdote barese. Spedizione commerciale ad Antiochia.
4. Gara con i veneziani
5. Dialogo coi monaci e pacifico prelievo delle reliquie. Due monaci li accompagnano
6. Partenza da Mira 11 aprile (da Niceforo, Giovanni ha 20). A Bari il 9 maggio.
7. Reliquie reposte in S. Giovanni Battista. Lunedì 47 guariti (da Niceforo).
8. I Baresi gli costruiscono una chiesa meravigliosa. Invito al papa Germano.
9. Il papa due anni dopo repone le reliquie nell’urna. Un osso della mano è esposto.
10 festeggiamenti e doni ai poveri. Preghiera finale.
Come esempio di libera rielaborazione (nel senso di aggiunte di incisi esplicativi abbastanza personali, si può portare il cod. Egorov 191 edito dalla Krutova. L’autore si prende la libertà di fare delle integrazioni, come ad esempio facendo il nome di Vsevolod Jaroslavič, aggiunge che era nipote di Vladimir, colui che battezzò la Terra russa. Parlando di Vladimir a Černigov, aggiunge che si chiamava anche Monomaco. Quando parla del santissimo papa di Roma aggiunge e patriarca, limitandosi in seguito a chiamarlo patriarca Germano.
A parte comunque le varianti e le integrazioni che si pensano utili al lettore, il nucleo del racconto rimane invariato. La caratteristica generale, rispetto alle fonti latine, è il considerare la cosa più come un disegno della divina provvidenza che come opera di uomini intraprendenti. Di conseguenza, anche il tono generale è estremamente ecumenico. Nello Slovo si respira una grande aria di armonia ecclesiale, dalla quale non emerge alcun cenno di alcun tipo di critica verso la cristianità latina. Si parla di un sacerdote di Bari devoto e pio, di sacerdoti baresi che partecipano all’impresa, del santissimo papa Germano, e beata è la città di Bari per un tanto tesoro. Persino i monaci di Mira, lungi dallo scontro di cui parlano le fonti latine, accondiscendono alla richiesta dei baresi e due di essi li accompagnano fino a Bari. Né poteva essere altrimenti, sia perché si trattava del grande santo Nicola, sia perché fino agli inizi del XIII secolo solo il clero greco in Russia fomentava la polemica antilatina, a meno che non si vogliano continuare a credere autentiche le lettere di S. Teodosio contro i latini. Di conseguenza, oltre al pregio storico letterario, lo Slovo russo sulla traslazione ha un grande impatto ecumenico.
Indegne di uno storico imparziale sono perciò le osservazioni dello storico russo Evgenij Golubinskij che, trascurando il fatto che tale armonia ecclesiale attraversa il testo dall’inizio alla fine e violando il contesto cronologico, spiega questa aria di pace col fatto che il sacerdote pio e devoto sarebbe stato un greco-ortodosso[55]. Da tale tesi fantasiosa nasce l’impressione, poi passata in alcuni libri di pellegrinaggio, che Bari a quel tempo fosse ortodossa. Ciò contrasta con tutta la documentazione storica. I Normanni erano abbastanza liberali, ma avevano una politica esattamente all’opposto, una politica antigreca e latinizzatrice, senza dire che anche sotto il dominio bizantino Bari aveva una popolazione prevalentemente latina.[56]
9. La Translatio veneziana e la Translatio genovese
Come si è visto, tutte e quattro le fonti, sia le latine che la russa, parlano della gara con i Veneziani che pure volevano il corpo di S. Nicola. In realtà, l’attenzione rivolta dalle fonti a questo particolare, al di là del fatto in sé, potrebbe essere stata attratta anche dalla successiva pretesa veneziana alle reliquie del Santo. Cosa che vale ovviamente solo per le redazioni franca e russa nelle rielaborazioni successive al 1099, quando i Veneziani effettivamente raggiunsero Mira e prelevarono un gran numero di reliquie dalla chiesa di S. Nicola. In tale discorso non rientrano le fonti baresi, scritte come si è detto nel 1087/1088.
La Translatio veneziana fu descritta da Giordano de Curti[57], Andrea Dandolo[58], Pietro Callotius, Pietro de Natalibus[59], Marin Sanudo[60]. Da costoro ne elaborò una narrazione più articolata Fortunato Ulmus[61], che cercò anche di armonizzarla con la Translatio barese. Da un antico codice del monastero di S. Niccolò del Lido a Venezia trascrisse la storia anche Cornelio Flaminio[62] pubblicandola nel 1749. A quanto mi risulta il testo più antico pervenutoci è quello di fra Giordano de Curti, scrittore veneziano, il quale dopo aver sintetizzato la Translatio barese partendo dal testo di Sigeberto Gemblacense[63], afferma di aver trovato in un antiquissimo libro la versione veneziana dei fatti. Ecco i dati principali di esso:
  1. Nel 1097, mentre è papa Urbano II, imperatore Alessio Comneno, in S. Marco a Venezia è eletto vescovo Enrico ed ammiraglio Giovanni Vitale, figlio del doge Michele.
  2. La flotta raggiunge Rodi, dove svernando entra in contrasto con la flotta pisana.
  3. La flotta sbarca a Mira. Nella basilica trovano quattro monaci, che mostrano ciò che i baresi hanno lasciato (solo manna).
  4. Un monaco però mostra sotto l’altare di S. Giovanni un’altra arca con i corpi di due predecessori di S. Nicola: S. Teodoro martire e S. Nicola zio. Alle navi.
  5. Alcuni ritardatari sentono un profumo. Sotto l’icona lasciata dai baresi scoprono una massam vitream. Vicino alle reliquie una palma da Gerusalemme.
  6. Ad osservare accorrono Ungheresi, Teutonici, Danesi, Inglesi, Baresi e Pisani.
  7. La notizia giunge a Venezia: dove porle? In S. Marco, S. Niccolò del Lido, altrove?
  8. Dopo la conquista di Acri, la nave con le reliquie torna a Venezia. Sono portate a S. Nicolò del Lido, custodite da armati.
  9. Inventio: tertio Kalendas Junii (= 30 maggio); translatio in Venetias: VIII idus Decembris (= 6 dicembre): tertio anno ab incepto itinere (1097, quindi 1099).
Già il Falconius nel suo commento si mostrò severissimo verso numerosi particolari di questa storia. Ma, se si fa attenzione, tutte le critiche sono correlate alla confusione fra Nicola di Patara, vescovo di Mira, e Nicola di Farroa, archimandrita di Sion e vescovo di Pinara. Una confusione che ancora oggi tarda a dileguarsi. Il punto cruciale resta il dialogo coi monaci che dicono che i baresi hanno preso una parte delle reliquie, mentre all’apertura dell’urna c’è solo la manna. Per cui, o lo scrittore vorrebbe alludere alla possibilità che i Veneziani abbiano preso tutto il corpo, mentre i baresi ne avrebbero preso uno sbagliato, oppure bisognerebbe supporre che i Baresi abbiano preso Nicola di Mira e i veneziani Nicola di Pinara, come sembrano supporre sia il Krasovskij[64] che lo Šljapkin[65]. Uno degli scrittori veneziani, Andrea Dandolo, propende per la prima soluzione, affermando tra l’altro: Hanc translationem Graecorum codices comprobare videntur, negantes Barenses cives beatum corpus abstulisse[66]. Ma si tratta solo di una battuta propagandistica, poiché, come si sa, non esistono manoscritti greci medioevali che negano la traslazione a Bari. L’unico testo greco al riguardo è una redazione di Niceforo che conferma la traslazione a Bari. Per avere qualche dubbio da parte greca bisogna attendere l’epoca moderna e contemporanea.
Si potrebbe tuttavia anche supporre che effettivamente i veneziani abbiano preso le poche reliquie che i baresi avevano lasciato (la precedente impresa barese è ricordata da tutte le fonti latine, anche veneziane), ma che poi desiderosi di maggior gloria abbiano inventato la storia della tomba vuota e dell’urna autentica[67]. In assoluto, comunque, la storia veneziana (urna vuota, altra urna piena) potrebbe essere vera. Infatti, nella ricognizione di alcuni anni fa è stata trovata un’immagine a forma di medaglia bronzea, su cui era scritto “Nicola peccatore”. Ora, se si legge la Vita Nicolai Sionitae si scopre che questa espressione era usuale in bocca all’archimandrita di Sion. Per cui, la veneziana Historia Translationis potrebbe essere la testimonianza che il Nicola di Sion non sia stato sepolto, come si crede, a circa una trentina di chilometri tra le montagne ad est di Mira, ma, morto nelle vicinanze, sia stato poi sepolto nella stessa chiesa del grande taumaturgo. In tal caso avrebbero ragione il Krasovskij e lo Šljapkin che Venezia ha Nicola di Sion e Bari Nicola di Mira. Così nella storia veneziana rimarrebbe un solo errore: il considerare Teodoro e Nicola zio predecessori di S. Nicola nella sede mirese.
Anche i Genovesi nello stesso periodo tentarono l’impresa. Le fonti tuttavia sono alquanto più recenti delle veneziane. Fu il notaio Nicola de Porta a raccogliere una leggenda del XV secolo. Secondo la suddetta narrazione[68], trovandosi il re Baldovino in difficoltà a causa dei Saraceni, chiese aiuto al papa Urbano II, che invitò a partire quei veri legiptimi filii sancte matris Ecclesie che erano i Genovesi. Questi, con sei navi e ventisei galee apportarono un valido aiuto a Baldovino sbaragliando i Saraceni. Sulla via del ritorno, giunti a Mira entrarono nella Chiesa di S. Nicola per involarne le reliquie. Ma i monaci risposero loro che lo avevano già preso i baresi: dicimus vobis et juramus per sanctam religionem et poenitentiam nostram quod jam diu est quod Barenses corpus beati Nicolai ad propriam nationem suam portaverunt. I Genovesi continuarono le ricerche e trovarono l’arca vuota.
  1. Conclusioni
L’interpretazione socio-politica della vicenda, che seguendo il Nitti di Vito è stata concepita nell’ambito dello scisma vibertiano-gregoriano (a favore della gregorianità), o seguendo il Pertusi, nell’ambito dello scontro episcopale fra Bari e Canosa, va riveduta. La prima perché fantasiosa e per nulla documentata, la seconda perché protagonista dell’impresa non fu la chiesa, ma il popolo. Il tentativo di attribuire all’abate Elia l’iniziativa dell’impresa sembra infondato, a meno che non si voglia prendere il sogno del sacerdote barese devoto dello Slovo russo, come una fonte concreta e non agiografica. Una interpretazione storico ideologica si può dare. Ma una volta tanto non vede in scena i grandi e il loro scontro di interessi, ma il popolo di una città privata del suo ruolo di capitale e ferita nell’orgoglio, ma ancora piena di energie imprenditoriali. Che poi, a cose compiute, l’evento sia stato utilizzato per il suddetto fine di scalzare definitivamente il primo posto di Canosa come sede episcopale, la cosa è più che ragionevole.
Appendice:
prospetto provvisorio
dei codici manoscritti sulla Traslazione
Bibliotheca Parisiensis
Paris. Lat. 803, ff. 249v ss. (sec. XIV) Comp. Franco.
Paris. Lat. 5284, ff. 149-156 (Johannes)
Paris. Lat. 1864, ff. 135v-142v (Johannes)
Paris. Lat. 5278, ff. 462r-468r (sec. XIII) Comp
Paris. Lat. 5287, ff. 160v-181v (sec. XIII) Comp
Paris. Lat. 5290, ff. 54-65v (sec. XII) Gv
Paris. Lat. 5303, ff. 16-17v (sec. XIV), Johannes
Paris. Lat. 5345, ff. 71-77 (sec. XII) Gv
Paris. Lat. 5365, ff. 218-223 (sec. XII), Johannes
Paris. Lat. 5368, ff. 33-41v (sec. XIV), Johannes
Paris. Lat. 9736, ff. 23v-34v (sec. XII) Johannes
Paris. Lat. 11756, ff. 217-222 (sec. XIV)
Paris. Lat. 12600, ff. ?
Paris. Lat. 12607, ff. 180v-190v (sec. XII) Niceforo Vat.
Paris. Lat. 13768, ff. 5-18 (sec. XII) a Nevelone monacho Corbeiensi (Nic. Vat.?)
Paris. Lat. 13772, ff. 54-61 (sec. XIII) Nic. Vat.
Paris. Lat. 14651, ff. 99-107 (sec. XV) Gv
Paris. Lat. 15135, ff. 13-21 (sec. XIII-XIV); 21v-24 officium translationis Gv
Paris. Lat. 16329, ff. 75-86 (sec. XII) Gv
Paris. Lat. 18303, ff. 84v-89v (sec. XII). Nic. Vat.
Paris. Lat. 2288, ff. 168-169 (a. 1425).
Bibliotheca Vaticana
Vat. Lat. 6074, ff. 5v-10v.
Vat. Reg. 477, ff. 29-38v (sec. XII-XIII) Gv
Vat. Reg. 498, ff. 80v-90v. Gv
Vat. Reg. 529, ff. 124v (sec. XIII)
Bibliotheca Vallicelliana
Vall. Lat. XXIV (sec. XIII)
Bibliotheca Duacensis (Douai)
838, ff. 152v-158v (BHL 6183, 6184-86). Cfr. An. Boll., t. XX., p. 392.
842, ff. 48-63v (BHL 6183-6186) Relatio Nichofori Barrensis. Cfr. AB XX, p. 398
855, ff. 162v-194v (BHL 6183-6186) Relatio Nichofori Barrensis, Ivi, p. 410.
865, ff. 1-19v (BHL 6183-186). Cfr. An. Boll., t. XX, p. 417
Bibliotheca Publ. Rotomagensis
Cod. Lat. U 109, ff. 74v-81 (Translatio a Iohanne, BHL 6190)
Cod. Lat. Y 41, ff. 292-305 (BHL 6180)
Bibliotheca Carnotensis
Cod. 473, tomo I (alias 511 5/B), ff. 171v-173v (Translatio a Iohanne)
Bibliotheca Bollandiana
5, ff. 217v-226 (BHL 6183, 6184, 6168
209, ff. 109-113v (BHL 6190-92)
Bibliotheca Bruxellensis
380/382, ff. 37-41 (sec. XV; Falconius, 131-139)
1960/62, ff. 67-80 (Compilatore franco)
3391/99, ff. 119v-123v (Nic. Vat.)
7461, ff. 192-214
7487/91, ff. 185v-195v (sec. XIII, Vita et Translatio)
8059, ff. 84-90 (sec. XV), Comp. breve
9120, ff. 153-153v (Translatio), Comp. breve
9289, ff. 148-151 (sec. XII),
9291, ff. 30v-35v. (a. 1480), Comp. breve
14924, ff. 106v-107v (sec. XIV), Comp. breve
Phillips 324/327, ff. 140-144v (sec. XII)
Bibliotheca Hagensis
J. 6 (Trai, a/M, 351), f. 92 (red. Breve)
Bibliotheca Brugensis
Cod. sign. 402, ff. 163v-189v (Compilatore franco)
Bibliotheca Gandavensis
289 (già St G. 662), pp. 219-261
499 (W 205, St G. 154), ff. 159-194
Bibliotheca Namurcensis
53, (Niceforo Beneventano). Cfr. An. Boll. I (1882), p. 507-508.
Bibliotheca Monacensis
CLM 22251, ff. 107-113v (sec. XII)
CLM 17143, ff. 104v ss. (sec. XII).
CLM 13098, ff. 201-202 (sec. XII)
CLM 2536, ff. 122v-129 (sec. XII)
British Library
Additional ms. 38112, f. 101b
Harley ms 3097, f. 122
Magno Legendario Austriaco (An. Boll. T. XVII)
Legendario Austriaco
Legendario Bavarico
Codex Emmerammensis (già Monacensis lat. 14419, sec. XII), ff. 36v-42.
Translatio Venetias
Cod. Vat. Barberinus 2312, ff. 1-19v (sec. XVI-XVII)




[1] Mi sono occupato di parecchie translationes ed inventiones medioevali, come quelle di S. Nicola di Bari[1], S. Nicola Pellegrino[1], S. Canio di Acerenza, S. Elpidio e S. Castrense[1], S. Sabino di Canosa[1], S. Cataldo di Taranto[1], S. Leucio di Brindisi e Trani. Cfr. G. Cioffari, La Chiesa di Trani nell’XI secolo e S. Nicola Pellegrino, Conferenza inedita (Trani 23 marzo 1999).
[2] Cfr. Sumption, Monaci, santuari, pellegrini. La religione nel Medioevo, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 39. A conferma vedi anche tutta la vicenda dell’arcivescovo Roffredo e il suo incontro con S. Anselmo d’Aosta al concilio di Bari del 1098. Testo in Eadmer, Vita S. Anselmi, in Acta Sanctorum dei Bollandisti.
[3] Cfr. Eginardo, Translatio Marcellini et Petri, I, 2-5. In Sumption, Monaci, p. 39-40.
[4] Cfr. Agostino Pertusi, Venezia e Bisanzio nel secolo XI, in La Venezia del Mille, Firenze 1965, pp. 119-123, 146-147.
[5] Studien zur Orientpolitik des Reformpapsttums und zur Entstehung des ersten Kreuzzuges, in Historische Vierteljahresschrift, 22 (1934), pp. 167 ss.
[6] G. Praga, La traslazione di S. Nicola e i primordi delle guerre normanne in Adriatico, in Archivio storico per la Dalmazia, 6 (1931), p. 340.
[7] La Ripresa gregoriana di Bari (1087-1105) e i suoi riflessi nel mondo contemporaneo politico e religioso, Trani 1942.
[8] Agostino Pertusi, Ai confini fra religione e politica. La contesa per le reliquie di S. Nicola tra Bari, Venezia e Genova, in Quaderni Medioevali, 5 (giugno 1978), pp. 6-56; cfr. p. 31.
[9] Cfr. Jonathan Sumption, Monaci, p. 40.
[10] De gloria Martyrum, 33, in PL LXXI, col. 734.
[11] Cfr. Niceta di Paflagonia, Oratio X, PG CV, col. 213-217. Anche Heremperto attribuisce l’iniziativa al principe Sicardo.
[12] Cessi, Documenti, I, p. 98, in Antonio Niero, S. Marco, nella Bibliotheca Sanctorum, col. 725.
[13] Niero, S. Marco, col. 725.
[14] Francesco Spadafora, S. Matteo, in Bibliotheca Sanctorum, col. 124.
[15] Nel primo di questi documenti (gennaio 1094) il catepano Guigelmus cede un affidato alla chiesa di S. Nicola e al suo rettore l’arcivescovo Elia (CDB V, doc. 18, p. 35). L’atto è scritto per manum Nikifori nostri protonotarii. Un altro atto dello stesso catepano è autenticato per suum honorabile sigillum scriptum per manum Nikifori sue barine curie protonotarii (CDB V, doc. 20, p. 38). L’atto del 1108, recante la stessa intitolazione, è una donazione del nuovo catepano, Goffredo Gallipolino (CDB V, doc. 52, p. 94).
[16] Fra le pergamene di S. Nicola il personaggio che meglio corrisponde al Curcorio lucidissimus arbiter è il Gregorio alla cui presenza si stende un atto di vendita del 1078. Esso avviene coram presentia domini Cricori, imperialis protospatharii et manglabiti atque critis Italias, il quale si firma Κρικοριος προτοσπαθαριος επι του μαγγλαβιου ο γενονος κριτις Ιταλιας υπεγραψα οικεια χειρι. Cfr. CDB V, doc. 3.
[17] Translatio Sancti Nicolai in Varum. Codice della Biblioteca capitolare di Benevento, scoperto da Stefano Borgia ed edito da Niccolò Putignani, Istoria della vita, de’ miracoli e della traslazione del gran taumaturgo Niccolò, arcivescovo di Mira, patrono e protettore della Città e della provincia di Bari, Napoli 1771, pp. 549-568. Secondo il Praga questo codice sarebbe del 1151-1190, essendovi indicata la sublatio e la translatio secondo il computo bolognese, in uso a Bari in quell’arco di tempo. Il Pertusi, La contesa, p. 20 accetta queste conclusioni. Io sarei più cauto, vista l’eccessiva libertà del Praga nel fare affermazioni di questo tipo. In particolare sono perplesso sull’uso a Bari di una datazione diversa da quella bizantina fino a tutto il XV secolo. Oltre al codice scoperto dal Borgia a Benevento, si segnalano questi altri codici della stessa redazione: Namurc. Lat. 53, Paris. Lat. 12600 (indicato come secolo XI) e il Bruxell. Lat. 9289, ff. 148-151 (sec. XII).
[18] Cfr. Cod. Vat. Lat. 6074 del XII secolo. Edito dal Falconius, Acta primigenia, pp. 131-139; N. Putignani, Istoria della vita, pp. 551-565 (in calce alla recensione beneventana); Nitti di Vito, La traslazione delle reliquie di S. Nicola, in Japigia 8 (1937), pp. 295-411, vedi pp. 336-356. La redazione vaticana ci è giunta, oltre che nel cod. Vat. Lat. 6074, anche nei codici Paris. Lat. 12607, 13768, 13772, 18303 (sec. XII-XIII), Vat. Reg Lat. 529 (sec. XII), Bruxell. Lat. 380-82, ff. 37-41 (sec. XV) e Bruxell. Lat. 3391-99 ff. 119v-123v (dell’anno 1480). Sempre vaticana dovrebbero essere la Relatio Nichofori Barrensis del cod. Duacensis 842, ff. 48-63v (cfr. BHL 6183-6186), Duacensis 855, ff. 162v-194v, e Duacensis 865, ff. 1-19v, nonché Rothomagensis Y 41, ff. 292-305.
[19] Λογος εις την Ανακομιδην. Edita come Translatio Barim Graece da G. Anrich, Hagios Nikolaos, I, pp. 435-449, II, pp. 170-173. Il Pertusi (La contesa, p. 22) ipotizza questa come la traduzione in greco della redazione originale.
[20] Cod. Vat. Reg. Lat. 477. Edito in L. Surius, De probatis sanctorum historiis, III, Coloniae Agrippinae 1579, pp. 172-181 (ed. 1618, vol. V, pp. 116-121; e del 1880, vol. XII, pp. 185-196); N. Putignani, Vindiciae Vitae et gestorum S. Thaumaturgi Nicolai Archiepiscopi Myrensis, Diatriba II, Neapoli MDCCVII, pp. 217-251. Non accorgendosi che questa del Putignani era più accurata di quella del Surio (Cfr. Bibliotheca hagiographica Latina, II, Bruxelles 1900-1901, p. 897), Francesco Nitti di Vito la ripubblicò dall’edizione del Surio 1618. Cfr. F. Nitti di Vito, La traslazione delle reliquie, pp. 357-366. Severissimo il giudizio del Pertusi sull’edizione del Nitti che oltre che di cattiva lettura lo accusa di aver addirittura confuso il codice di Niceforo con quello di Giovanni. Oltre al Vat. Reg. Lat. 477, vanno segnalati questi altri codici: Paris. Lat. 5290, 5345, 5365, 9736, 16329 (del secolo XII), 5284 (del sec. XIII), 15135 (sec. XIII-XV), 1864 e 5368 (sec. XIV), 14651 (sec. XV), Vat. Reg. Lat. 498 (sec. XII), Bruxell. Lat. Apud D. Phillips 324 e 327, ff. 140-144v (sec. XII), Vallicel. Lat XXIV (sec. XIII). Di Giovanni dovrebbe essere anche il cod. Rothomagensis U 109, ff. 74v-81, il Carnotensis 473, tomus I (alias 511 5/b), ff. 171v-173.
[21] Orderico Vitale, Historia ecclesiastica, pars III, lib. VII, in PL 188, pp. 535-539.
[22] Cod. Gandav. Lat. 289, già St. G. 662; edita dai Bollandisti. Cfr. Appendix ad catalogum codicum hagiograficorum Bibliothecae Academiae et Civitatis Gandavensis, in Analecta Bollandiana, 4 (1885), pp. 169-192. Altri codici sono Paris. Lat. 5278 e 5287 (sec. XIII), Paris. Lat. 803 (sec. XIV), Bruxell. Lat. 7461 (Translatio, ff. 192-214) e 7487-91 (Translatio, ff. 185v-195v), copie tardive. Questa stessa narrazione ciè giunta anche in una redazione breve: Bruxell. Lat. 1960-62, ff. 1-83v (sec. XIII), 8059, ff. 79v-90 (sec. XV), 9120 ff. 145-153v (sec. ?), 9291, ff. 30v-35v (dell’anno 1480), 14924-34, ff. 106v-107v (sec. XIV).
[23] Pertusi, La contesa, p. 21.
[24] C. W. Jones, Saint Nicholas of Myra, Bari and Manhattan. Biography of a Legend, The University of Chicago Press, Chicago London 1978, p. 175.
[25] Gesta peregrinantium Francorum cum armis Hierusalem pergentium sive Historia Hierosolymitana, PL 155, lib. I, cc. 2 e 3, p. 832.
[26] Gesta Dei per Francos, spive Historia Hierosolymitana, PL 155, col. 677-678.
[27] De Sancto Anselmo. Alia vita ex Historia novorum, lib. II, cap. 3, in Acta Sanctorum Aprilis t. II, Venetiis 1738, p. 916.
[28] De sancto Anselmo Archiepiscopo Cantuariensi Vita, in Acta Sanctorum Aprilis, t. II, Venetiis 1738, p. 880, 888.
[29] De gestis pontificum anglorum libri quinque, lib. I, PL 179, col. 1492.
[30] Historia ecclesiastica, pars III, cap. X, in PL 150, col. 539-541.
[31] Cfr. Walter de Gray Birch, The legendary life of St Nicholas, in The Journal of the British Archaeological Association, XLIV (1888), pp. 222-234 (testo a p. 232-233). In italiano, vedi Pasquale Corsi, La traslazionePp. 85-86.
[32] Cfr. Ad esempio la bolla di Pasquale II a favore di Risone (aprile 1112). CDB V, doc. 58, pp. 103-104 (Sollempnitatibus sanctorum Nykolai et Savini et in Translatione beati Nykolai).
[33] Analecta Hymnica Medii Aevi, herausgegeben von Clemens Blume und Guido M. Dreves, Leipzig 1899
[34] Breviarium Ord. Praedicatorum, Karlsruhe, St. Petr. 32 del secolo XV. Cfr. Analecta Hymnica, XXXIII (Pia Dictamina), cit., p. 164.
[35] Breviarium Sedunense, codice Valeriano del sec. XV. Cfr. Analecta Hymnica, vol. IV, inno 406, p. 228.
[36] Antiphonarium S. Nicolai Friburgensis, del sec. XV. Anche nel Psalterium Sedunense del sec. XV, nel Breviarium Sedunense del sec. XV e nel Breviarium Lausannense imp. Gebennis 1509 E. Cfr. Analecta Hymnica, vol. IV, p. 229.
[37] Graduale Aquicinctense. Cod. di Douai 124 del secolo XV. Cfr. Analecta Hymnica, vol. III, p. 278.
[38] Cfr. Karl Young, The Drama in the Medieval Church, I-II, University Press, Oxford 1933 (specialmente vol. I); Otto Albrecht, Four Latin Plays of St Nicholas from the 12th Century Fleury Play Book, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1935; Joel Fredell, The Three Clerks and St. Nicholas in Medieval England, “Studies in Philology” (Spring 1955), The University of North Carolina Press, Chapel Hill, pp. 181-202.
[39] Cfr. F. Nitti di Vito, Le questioni giurisdizionali tra la Basilica di S. Nicola e il Duomo di Bari, 1087-1929, parte I, Bari 1933, pp. 76-84; L. R. Ménager, Recueil des Actes des Ducs Normands d’Italie (1046-1127), Bari 1981, pp. 215-219. Il Nitti lo considera un falso, il Ménager lo ritiene autentico.
[40] CDB I, doc. 33, p. 62.
[41] CDB I, doc. 34, pp. 64-65.
[42] CDB V, doc. 44, pp. 79-80.
[43] CDB V, doc. 42 (giugno 1105).
[44] CDB V, doc. 32, pp. 55-57.
[45] CDB V, doc. 164, pp. 279-281.
[46] Il documento non contiene alcun riferifento cronologico o notarile. E’ un elenco puro e semplice di nomi con a sinistra una croce completa o parziale ed a destra una specificazione relativa ai propri diritti. La datazione l’ho dedotta da alcuni titoli dei personaggi confrontati con quelli dello stesso personaggio in altre pergamene. In particolare il giudice Petracca Buffo e il notaio Nicola Peregrinus. Cfr. G. Cioffari, Storia della Basilica di S. Nicola, I, Bari 1984, p. 166.
[47] Testo in Petroni, Della storia di Bari, vol. II. Citato da Nitti, La ripresa gregoriana, cit., p. 475.
[48] F. Babudri, Sinossi critica dei traslatori nicolaiani di Bari, in Japigia 3 (1950), pp. 3-94.
[49] Cfr. La Ripresa gregoriana di Bari (1087-1105) e I suoi riflessi nel mondo contemporaneo politico e religioso, Trani 1942; Id., La leggenda della traslazione di S. Nicola da Mira a Bari, in Japigia, n.s. a. VIII (Bari 1937), pp. 94-106.
[50] Cfr. La traslazione di S. Niccolò e i primordi delle guerre normanne in Adriatico, cap. V (La leggenda di Kiev), in Archivio storico per la Dalmazia, a. XII (Roma 1937), vol. XXII, fasc. 132, pp. 114-136.
[51] Russkoe Poučenie XI veka o perenesenii moščej Nikolaja Čudotvorca i ego otnošenie k zapadnym istočnikam, S.-Peterburg 1881.
[52] Istorija Russkoj Cerkvi, Makarija mitropolita Moskovskago, tom II, izd. III, Sanktpeterburg 1889, pp. 327-331.
[53] Il Prolog ha indizione decima (1087), mentre il 1096 è quarta indizione. Nel Prolog a stampa fu “corretto” in 1096. Cfr. I. Šljapkin, Russkoe Poučenie, cit., p. 11.
[54] Polnoe sobranie Russkich Letopisej, tom 15yj, Sanktpeterburg 1863, p. 177.
[55] Cfr. E. Golubinskij, Istorija Russkoj Cerkvi, t. I, period I, vtoraja polovina toma, M. 1904, p. 399.
[56] Su oltre 50 pergamene del periodo greco-bizantino (939-1071) l’Archivio di S. Nicola conserva solo tre pergamene greche.
[57] Chronicon rerum ab Orbe condito ad annum 1320, Cod. Vaticano latino 1960. La parte relativa alla traslazione fu edita dal Falconius, Acta Primigenia, pp. 140-143.
[58] A. Dandolo, Chronica per extensum descripta, aa. 46-1280 d.C. , a cura di E. Pastorello, Bologna 1938. Anche L. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, 1728, t. XII, pp. 256-258.
[59] Petrus de Natalibus, Catalogus Sanctorum et gestorum eorum ex diversis voluminibus collectus, Lugduni 1508.
[60] Sanudo Marin, Le vite dei dogi, a cura di G. Monticolo, Città di Castello 1900-1901. Anche Muratori, RIS, XXII, p. IV.
[61] Olmo Fortunato, Historia translationis corporis Sancti Nicolai, terris marique miraculis magni episcopi e Myra Liciae Venetias factae anno MC, Venezia 1626.
[62] Ecclesiae Venetae antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae, ac in decades distributae, authore Flaminio Cornelio, Senatore veneto, Decas duodecima, Venetiis MDCCXXXXIX.
[63] Sigeberti Gemblacensis Chronicon (381-1111), in Monumenta Germaniae Historica, VI, pp. 365-366.
[64] Krasovskij, Ustanovlenie v Russkoj Cerkvi prazdnika 9 maja v pamjat’ perenesenija moščej svjatitelja Nikolaja iz Mirlikijskich v Bar, TKDA, 1874, pp. 521-585.
[65] Russkoe poučenie, loc. cit., p. 15.
[66] In Muratori, R.I.S., XII, p. 258.
[67] Alquanto critico è il giudizio del Pertusi, La contesa, p. 54, che definisce la Historia de translatione veneziana un interessante ma non credibile episodio della “guerra delle reliquie” della fine del secolo XI. A questo giudizio è spinto proprio dall’eccessiva cura di ricerca di motivi di credibilità e di discredito della storia barese.
[68] Cfr. G. Banchero, Il Duomo di Genova, che riproduce una leggenda raccolta dal notaio Nicola de Porta verso il 1415. Cfr. Giovanni Antonucci, Per la storia giuridica della Basilica di S. Nicola di Bari, in Japigia 1934, p. 244. Anche Nitti, La ripresa, p. 138.