martedì 11 dicembre 2012

O. Clément - Il destino dell'eros


Il Destino dell’eros di Olivier Clément

 

1. Erotismo, passione, vangelo

Oggi una richiesta talvolta coraggiosa, spesso compiacente, conduce ad una onnipresenza della sessualità. I mass-media, la pubblicità, il pathos «rivoluzionario» diffondono un freudismo volgarizzato e persino il senso della morte che il maestro viennese aveva trovato sparisce nei sogni paradisiaci del freudo-marxismo. Questo timore della «frustrazione», questo eccitamento diffuso a fior di pelle, di nervi, di immaginazione sono legati, pare, a tutto un insieme di delusioni.

Anzitutto delusione nel lavoro che per molti è meccanico, ripetitivo, privo di significato, un lavoro che con la evoluzione della tecnologia causa meno stanchezza profonda e tensione nervosa molto maggiore. Sembra che solo la «rottura» sessuale possa liberare da questa tensione. Il corpo dell’altro, per finire, è la sola realtà di natura che sussiste per un gran numero di persone nella civiltà tecnologica.

Delusione globale, in definitiva, attraverso il nihilismo segreto e l’estrema solitudine degli esseri. L’esperienza erotica è allora l’ultimo avvicinamento al sacro, l’ultimo incontro con altri. Nei giovani rivoluzionari, delusi dall’inafferrabile utopia, rimane la facile rivoluzione sessuale, l’ebbrezza della «libertà», il ritorno, inteso come una invenzione, alle vecchissime estasi dell’orgia. Le «comuni» con promiscuità sessuale esprimono un patetico e infantile bisogno di fusione per sfuggire alla solitudine e alla morte, alla solitudine della morte.

Tuttavia, a forza di parlare dell’erotismo, di essere invaso dai suoi fantasmi, di miniarne laboriosamente le estasi e le fusioni, a forza di «permessività» borghese o rivoluzionaria, ogni cosa diviene insignificante. E la futilità conduce a rinforzare l’eccitazione, tanto più che la sessualità, per il momento, sembra essere venduta bene e fa vendere bene. Da ciò deriva il carattere sempre più violento e più meccanico dell’erotismo contemporaneo che è in definitiva, la testimonianza di un indebolimento della vera sensibilità e si presentano dei fenomeni di impotenza e di frigidità. Infatti, coloro che hanno il senso dell’eros non ne parlano affatto. I popoli mediterranei, ad esempio, sono più pudichi di quelli del Nord. Si presentano anche dei fenomeni di disgregazione. Se vi è meno frustrazione, vi è più discontinuità e gli esseri faticano a realizzarsi in una continuità personale.

Non si dovrebbe, per questo, arrestarsi al solo erotismo. Se lasciamo gli intellettuali ai loro esercizi osserviamo, nei semplici, una preoccupazione ben diversa: quella dell’amore-passione, del «grande amore». In uno dei nostri libri chiave della nostra epoca, L’Amore e l’Occidente, Denis de Rougemont ha dimostrato che uno dei nostri ultimi miti è quello di Tristano e Isotta, anche e soprattutto per coloro che non hanno mai sentito parlare di questi eroi dell’amore-destino. La teoria di Rougemont è la seguente: l’amore-passione è nato dalla opposizione tra l’affermazione cristiana della persona e la persistenza tenace, nel mondo cristiano, di una concezione puramente funzionale del matrimonio. Per molto tempo ci si è sposati senza amore, per assicurare una discendenza alla famiglia. Ma la persona, già risvegliata all’esigenza della libera scelta, ha cercato l’amore all’infuori del matrimonio: fu la passione del trovatore o del cavaliere per la sua dama. Si potrebbe del resto andare più lontano e mostrare che il primo amore totalmente personale che si trova nella storia dell’occidente ha preso l’aspetto di un’amicizia spirituale tra uomini e donne che avevano rinunciato al matrimonio: san Bonifacio, nelle lettere indirizzate a santa Lioba, evoca il loro amore spirituale. Basta pensare al contesto: quella società merovingia brutale fino alla crudeltà, con le sue violenze carnali, i suoi matrimoni puramente biologici, il gioco carnale degli adulteri. Monaci e monache compivano uno sforzo immenso per strappare l’esistenza personale a tutta questa pesantezza «della carne e del sangue»; allora poterono comunicare con degli accenti nei quali si annunciava il vero amore. Ma la carne era ancora così violenta che un amore personale non sembrava potersi incarnare.

Anche l’amore-passione, dato che si pone direttamente in relazione con l’assoluto senza vera mediazione personale, si incarna male: «Non è possibile immaginare Isotta sposata con Tristano» ironizza Denis de Rougemont. Nella passione, l’amore è accompagnato dall’angoscia, da questa profondità di assoluto. L’attesa è premiata per un istante da un essere dal quale si spera la rivelazione dell’assoluto. Poi sopravviene la delusione ineluttabile: tutto è «realizzato», e quando «l’altro» rivela miseramente se stesso ci si risveglia indifferenti o addirittura gelidi. È noto che un amore cresce e muore come una malattia. E quando è morto, ci si chiede che cosa è avvenuto. «Come potreste essere fedele, se non siete in grado di afferrare la trama di un’altra vita? Mi chiedo come potete pensare a me, se vi succede di pensarmi in modo diverso che attraverso le vostre immagini. Ho cercato invano di ritrovare alcuni dei miei gesti nel vostro diario... A parte il tic del mio labbro non vi è nulla che prenda corpo. In fondo ho sempre destato il vostro interesse solo nella misura in cui ero me stesso e non nella misura in cui mi pensavate. Avete mai pensato che io vivo all’infuori di voi?»[1].

Il vero amore non è erotismo impersonale, né passione resa assoluta. Esso mette l’eros al servizio della tenerezza, sa che anche l’altro ha bisogno di essere salvato ma che, grazie al nostro amore, potremo salvarci insieme. Il Cristo ha ristabilito la grande nuzialità delle origini, riprendendo i termini stessi del Verbo creatore nel Genesi, sull’uomo e la donna che «saranno una sola carne». Il vero matrimonio, che non è una istituzione sociale ma un mistero, da quel momento è divenuto possibile. In Cristo, possiamo vincere la «durezza di cuore» e compiere l’apprendistato della fedeltà a immagine del Dio fedele che non ha mai cessato di dirci di sì anche quando lo rigettavamo. Ormai la grande nuzialità dell’uomo e della donna è dominata dal perdono, della vita più forte della morte. Allo stesso tempo non è più possibile dire come era necessario fare sotto il regime dell’antica alleanza che non è giusto che l’uomo sia solo: nella comunione della chiesa, la cattiva solitudine è vinta, il celibato può divenire vocazione di preghiera e di servizio, profezia del mondo futuro. A fianco della vita nuziale, in relazione profonda con essa, la vita monastica realizza anche il compimento dell’eros.

 

2. Monaci e martiri

Il monachesimo è apparso nella chiesa nel momento in cui è scomparso, con la conversione dell’imperatore, il rischio permanente del martirio. Si poteva temere che il cristianesimo non fosse secolarizzato, che non divenisse il cemento di una città terrestre.

Il monachesimo fu la rivolta contro ogni compromissione. Esso conobbe nel suo primo movimento una via aspra, quella dei «violenti che si impadroniscono del regno di Dio». Massimalismo evangelico, esige il rifiuto del conformismo e delle ambiguità. Per il monaco, solo Dio è totalmente interessante e agli uomini impegnati nelle preoccupazioni e nelle realizzazioni della storia, egli appare come un marginale, un pazzo, un fuorilegge: in realtà vuole sfuggire alla legge superandola, divenendo quella esistenza nello Spirito di cui non si conosce «donde viene né dove va».

Alcuni Padri hanno definito il monachesimo una «santa deviazione». Immaginiamo che i cristiani siano nuovamente perseguitati: un monachesimo istituzionalizzato non avrebbe più ragione di esistere: vi sarebbe solo un celibato all’interno di comunità eucaristiche sospette, talvolta chiamato al martirio. Questa era la situazione durante i primi tre secoli della nostra era, e il culto dei santi, che nacque sin dal periodo subapostolico, fu dapprima quello dei martiri.

Occorre comprendere il significato del martirio nel cristianesimo. Non consiste unicamente nella testimonianza, davanti ai giudici della terra della sola divinità del Cristo, ma è lo stato mistico per eccellenza. Il martire non è un asceta, ma un uomo dalla fede totale. Una giovane cristiana incinta rinchiusa nelle prigioni romane, gemeva dando alla luce la sua creatura. «Che cosa dirai quando sarai gettata in pasto alle belve?» chiede il carceriere. Ed essa rispose: «In quel momento in me ci sarà un altro che soffrirà al mio posto». Infatti nel momento in cui il martire si abbandona alla sofferenza, se aderisce con tutta la sua sofferenza al crocefisso-risuscitato, nel suo modo stesso di abbandonarsi, è invaso dalla potenza della resurrezione e conosce la gioia. «Dilaniata dalle zanne delle belve feroci» diviene «un purissimo frumento» come diceva e come testimoniava sant’Ignazio di Antiochia; egli diviene, in certo qual modo, eucarestia. E quando la situazione politica abolisce momentaneamente il martirio, sorge allora il monaco che, in maniera diversa, secondo la vecchia massima, «dona il suo sangue e riceve lo Spirito».

Come la testimonianza del martire, anche quella del monaco è la scheggia nella carne del mondo, la piaga tormentata dal sale. «Voi siete il sale della terra» - che impedisce alla storia di richiudersi su se stessa. In lui la fine è già presente e il mondo diviene «roveto ardente».

In certi momenti della storia il massimalismo evangelico passa dal martire al monaco; in altri momenti, dal monaco al martire. In Russia, ogni monachesimo organizzato, ad esempio, era scomparso nel periodo tra le due guerre, ma vi erano molti martiri e sappiamo che pregavano per il loro carnefice. Oggi la maggioranza dei monasteri che furono riaperti il giorno successivo alla fine delle ostilità sono stati nuovamente chiusi. Ma, strettamente legato ad un nuovo tipo di martire, si presenta «il martire della vita», fatto di umiliazione e di abiezione, un certo numero di monaci segreti. Il loro destino è deciso, sono abitati dalla preghiera, non si sposano più.

Il monaco, effettivamente, è colui che non si sposa, perché vuole accorciare il tempo, rimpiazzare il piacere degli altri nel tempo, con la realizzazione di se stesso nell’eternità. È bello avere dei figli, poiché ciascuno è un essere desiderato da Dio e perché il regno non verrà prima che il numero predeterminato degli eletti non sia stato raggiunto (eletti, lo ripetiamo, non per se stessi ma per dedicarsi alla salvezza del mondo). Ma colui, che per amore di Dio, non si sposa, profetizza più direttamente il regno, rifiuta di installarsi nella storia, nella continuità della specie e consuma in se stesso, il germe del tempo anziché lasciare che si svolga nel tempo.

Vi è del resto qualche cosa di analogo in un vero amore tra un uomo e una donna: essi non si uniscono solo per avere dei figli, ma perché si amano ed è come se il loro amore, senza indugiare oltre, trasfigurasse l’universo. Ma è necessario indugiare.

 

3. Il monachesimo, realizzazione dell’eros

Così come Giovanni si appoggia al cuore del Maestro durane l’ultima cena e poi, divenuto vecchio, scopre il volto fulgido del Signore dei mondi, così il monaco è affascinato dalla incomparabile bellezza del Risuscitato. In lui l’eros tutto intero è attirato da quella bellezza fatta di amore e di luce, tanto più sconvolgente in quanto irraggia attraverso la sfigurazione della passione della croce. Non vi è posto per un’altra espressione dell’eros perché il monaco ha compreso che la distanza e l’identità tra lo sfigurato e il trasfigurato danno la misura dell’amore «folle» di Dio per lui, per tutti, e di quale altro amore potrebbe avere bisogno?

È necessario amare Dio con tutta la forza dell’eros. San Giovanni Climaco diceva che è necessario amarlo come si amerebbe la propria fidanzata, la propria sposa. Il monaco così infiammato diviene un «uomo apostolico»; ha il diritto di parlare di Dio perché lo conosce con tutto il proprio essere. Non parlerà di lui come il teologo a tavolino, nei libri, ma come colui di cui si può dire che «possedendo la preghiera pura è veramente teologo». Quando parla di Dio, è un viaggiatore che racconta, ha percorso il cammino della passione ed ha pagato il prezzo del sangue.

Una chiesa in cui non vi fossero più dei grandi monaci capaci di pellegrinaggi simili nelle immensità di Dio per volgere in seguito verso gli uomini il viso infiammato come quello di Mosè che scendeva dal Sinai, sarebbe agonizzante. Per vivere, la chiesa ha bisogno di martiri o di monaci.

Ci si chiede: perché una società invaghita non solo della potenza ma anche della saggezza, tanto che sovvenziona dei lavori in cui si procede alla ricerca scientifica non potrebbe favorire quei lavori spirituali in cui degli uomini si consacrano alla «esplorazione di Dio?». Finiremmo tutti col riconoscere che è ridicolo discutere sulla esistenza di Dio. Sarebbe meglio ascoltare con attenzione coloro che lo conoscono per esperienza e dei quali crediamo che la fede e la conoscenza totale che essa provoca non degrada la loro umanità ma la glorifica.

Abbiamo bisogno di spirituali che possano divenire i nostri padri spirituali. Siamo rimasti orfani troppo a lungo, e abbiamo trasformato la cura dell’anima in una forma un poco frusta di psicoanalisi. Vorremmo anche degli uomini che praticano «l’arte delle arti e la scienza delle scienze», come i Silenziosi chiamano il loro «metodo», dei monaci capaci di discernere gli spiriti, di tuffarsi nei cuori, (che sono un poco più profondi dell’inconscio degli psicoanalisti), di spirituali al corrente della strategia dei combattimenti invisibili. Sì, abbiamo bisogno di monaci!

 

4. Obbedienza, castità, povertà

I voti monastici tradizionali permettono di amare Dio e il prossimo «con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutto lo spirito».

L’obbedienza libera la libertà crocifiggendo «l’amore di sé». Colui che in tutta fiducia si rimette a un «padre» più avanzato sulla via della liberazione supera la sufficienza e l’ascendente delle «passioni» si stacca e si pacifica, si trova trasportato da una intercessione che lo introduce nella comunione dei santi. L’obbedienza mette a morte l’idolatria di sé, radice di tutte le altre, impara a sottomettersi a ogni vita in modo che ingrandisca totalmente, cioè che insegni al monaco a divenire a sua volta «padre».

La povertà, come impoverimento ontologico, collabora con l’obbedienza per aprire l’uomo al Dio vivente: e il farci umili nelle sue mani ci permette di ricrearci. Da qui proviene ogni cosa, e tutto è grazia. La povertà è come il rovescio della celebrazione. Interiorizzata dal laico impegnato nel mondo, essa supera l’idolatria dell’economia, allontana con ironia l’ossessione di produrre e di consumare e, come scriveva Paul Evdokimov, prepara una economia planetaria fondata sulla spartizione ma ordinata alla comunione dal vero miracolo del pane: l’eucaristia.

La castità è una nozione ricca e profonda della tradizione dell’antica chiesa, e questa nozione vale tanto per l’uomo sposato che per il monaco. Castità significa unificazione, pacificazione, integrità e integralità di tutto l’essere. Vi è castità quando la persona integra realmente l’eros, il dinamismo della sua natura. Abbandonarsi al movimento dell’eros significa disintegrarsi; uccidere l’eros senza risuscitarlo, senza vivificarlo nello spirito, significa inaridirsi secondo un tipo molto particolare di cattiveria monastica (spesso inquisitoria). È necessario farne l’immensità dell’amore personale. Allora tutta la forza della vita diviene la celebrazione di un incontro, l’incantesimo di una tenerezza. Può essere l’amore della bellezza ultima del Cristo, che mi concede il segreto di tutti i volti e la dolcezza di tutto il creato. Ricordiamoci, nel chiostro di Avila, il tamburello col quale santa Teresa si accompagnava per danzare quando il giubilo la invadeva. Ciò può anche avvenire ma non vi è opposizione, il volto della beneamata che strappa al poeta quel grido tanto banale e tanto essenziale:

«Come è bello il mondo, mio beneamato,

com’è bello il mondo!».

Obbediente, povero, casto, il monaco diviene la sentinella del mondo. Nella regola che diede ai monaci della chiesa romena nel 1953, il patriarca Giustiniano ingiunse loro «di pregare per coloro che non sanno, non possono o non vogliono pregare». Anche un monaco dell’Athos poteva dire a un ospite di passaggio, in occasione di celebrazioni notturne quasi ininterrotte: «Dobbiamo pure trionfare di tutto il sonno del mondo». Così è il violento che si impadronisce del regno: vede tutte le cose nella luce del Cristo che viene e, attraverso ciò, affretta la sua venuta.

Non per questo un monaco è insensibile alla bellezza femminile, alla sua essenza che si potrebbe chiamare «paracletica» dal nome di Parecleto, lo Spirito «consolatore». Per tornare all’Athos, se nessuna presenza femminile vi è ammessa, ovunque, nel cuore di ogni monastero vi è l’icona della madre di Dio, e l’Athos è spesso definito come il giardino della Vergine. L’ascesa dell’eros verso l’eternità avviene dunque attraverso la mediazione del più femminile dei volti, così come un’amicizia spirituale può avere un ruolo prezioso in un destino consacrato all’adorazione. Ma allora, «ama il più degno d’amore in questo mondo, l’io dell’altro. E come accogliere la bellezza? È semplice: riconosci, accogli nel tuo cuore questo dono dolcissimo del cielo, poi lascialo tranquillo salvo per augurargli la bellezza suprema di Dio, la sua grazia suprema»[2].

 

5. La voce nuziale

È significativo il fatto che la consustanzialità della natura umana, la sua unità, ci sia dapprima rivelata dalla bibbia sotto una forma nuziale: l’uomo, quando Dio conduce a lui la donna, dice: «Questa è ossa delle mie ossa, carne della mia carne». E il Genesi continua, sulla realtà presente del matrimonio: «Perché l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a una donna, e essi diverranno una sola carne» parole che il Cristo riprende nel vangelo. Così l’amore della donna e dell’uomo è originale, paradisiaco, offerto nel suo splendore ben prima del peccato: «E l’uomo e la donna erano entrambi nudi, senza vergogna»[3]. Nel paradiso non troviamo il monaco, ma la coppia.

Certo la condizione separata ha toccato molto profondamente la relazione dell’uomo e della donna. L’uno e l’altro sono stati trascinati dal gioco impersonale dell’eros in cui si cercano dolorosamente per incontrarsi un istante, perdersi nuovamente o non incontrarsi mai.

Paul Evdokimov, la cui meditazione dell’amore umano è tanto preziosa, applica simbolicamente all’uomo e alla donna l’interrogativo che Dio pone ad Adamo, nel paradiso già perduto: «Dove sei?». Nello stesso modo, scrive Evdokimov, l’uomo e la donna non cessano di dirsi l’un l’altro: «Dove sei?» nel corso di una storia in cui l’attrazione e l’odio si fondono. Si potrebbe infatti studiare ciò che Maryse Choisy ha chiamato «la guerra dei sessi». Il periodo patriarcale non è sempre esistito, l’uomo non ha sempre dominato la donna. La storia e la preistoria hanno conosciuto dei fenomeni di matriarcato (attestato fino al XVIII secolo in alcune campagne francesi in cui l’uomo era semi-nomade) e di poliandria, praticata nel Tibet fino ai nostri giorni e del resto considerata come un ottimo metodo per la limitazione delle nascite! Se il femminismo sembra essere stato legato piuttosto al mondo animale che la spende, piuttosto che una dominazione unilaterale si presenta un gioco complesso di tensioni e di alternanze. In molte tradizioni arcaiche (e la cosa è riapparsa in India) in pieno periodo patriarcale, con il tantrismo, era possibile avvicinarsi al divino attraverso un simbolismo cosmico e femminile (non solo la terra madre, ma la grande madre divina) ed esisteva un sacerdozio femminile.

Alla forza superiore dell’uomo la donna ha opposto la sua tenacità biologica. Sessualmente l’uomo è legato all’istante, la donna alla continuazione. Serva, ma che partorisce e infantilizza il maschio, serva della specie in definitiva e l’uomo è sempre tentato di dissolversi nel seno della grande madre cosmica.

È in Cristo, nel misterioso rapporto che lo unisce alla chiesa, che il cristiano cerca la riconciliazione dell’uomo e della donna, del maschile e del femminile, dell’eros e della persona. Il cristianesimo, anche se certi contesti culturali lo hanno talvolta deformato, ha posto definitivamente la trascendenza della persona stabilendo dunque che l’uomo e la donna sono entrambi delle persone, molto più che eguali, assolute. È per questo che san Paolo ha potuto scrivere: «In Cristo, non vi è più uomo né donna»[4]; vi sono, fondamentalmente, delle persone.

Simultaneamente il Cristo ha restaurato la buona popolarità del maschile e del femminile, gli ha restituito il suo splendore paradisiaco, lo ha pacificato, illuminato con quel grande amore che esiste tra lui e la sua chiesa, tra lui e la terra deificata dell’eucaristia, perché la chiesa non è solo il suo corpo ma la sua sposa ed è una donna, Maria, che in nome dell’umanità e della terra, ha liberamente riaperto la creazione al suo creatore.

Ecco perché san Paolo afferma ancora: «Nel Signore, la donna è nulla senza l’uomo, e l’uomo è nullo senza la donna»[5].

In tale prospettiva il vero matrimonio che non è sociologico ma sacramentale «è un gran mistero» - scrive l’apostolo - non mette in causa, come abbiamo detto, la vera castità.

In occasione del primo concilio ecumenico, quello di Nicea, alcune voci insinuarono che il matrimonio e il sacerdozio erano incompatibili perché la sessualità rende impuri. Ora, occorre sottolinearlo, questo problema non si era mai posto dalle origini del cristianesimo. L’apostolo Pietro, in particolare, era sposato, e Clemente di Alessandria, riunendo vecchi documenti, ci mostra l’amore coniugale dell’apostolo e di sua moglie raggiungere il suo culmine nel momento del martirio. San Paolo, che aveva avuto degli accenti monastici, e aveva preferito conservare il celibato nella speranza di un ritorno immediato del Signore, quando alla fine della vita fu chiamato a precisare l’organizzazione delle comunità che aveva fondate, chiese soltanto che il vescovo (il termine indicava allora tanto i nostri vescovi che i nostri preti) fosse «l’uomo di una sola donna». La raccomandazione ha valore mistico e non morale: nell’antica chiesa, infatti (come oggi nella chiesa ortodossa), un vedovo non poteva accedere al sacerdozio.

La fedeltà del prete a una sola donna - e questo andrebbe oltre la morte - deve essere l’immagine della fedeltà assoluta di Dio.

Ora lo sviluppo di un dualismo (al limite manicheo) che reagiva contro il pansessualismo di alcuni culti pagani, il ritorno di una dialettica vetero-testamentaria del puro e dell’«impuro», e infine l’evoluzione del sacerdozio in una casta clericale, portarono il concilio di Nicea a porre il problema della impurità o della purità del matrimonio. Fu allora che un grande monaco egiziano, Pafnuce, che conosceva per esperienza le vie della castità ascetica, ricordò con forza che il matrimonio è casto e che è dunque perfettamente conciliabile con l’esercizio del sacerdozio.

Nella tradizione della chiesa indivisa, la dualità della vita monastica e della vita coniugale non coincide affatto con quella del sacerdozio e del laicato. Si può benissimo concepire che anche un laico abbia bisogno del celibato per realizzarsi; i monaci, in occidente, fino al periodo carolingio e in oriente, a parte poche eccezioni, fino ai nostri giorni, sono quasi tutti dei laici. In oriente avviene che alcune comunità monastiche non abbiano sacerdote, e i sacerdoti giungano per le celebrazioni eucaristiche delle ricorrenze e delle domeniche; durante il resto del tempo i monaci cantano e salmodiano le funzioni come i laici hanno diritto di fare. Se dunque un laico può essere preso dalla vocazione del celibato, un uomo sposato può essere preso da quella sacerdotale e ciò in oriente avviene spesso. Ciononostante dato che si tratta qui delle vie inventive dell’amore si può facilmente concepire (e siamo incoraggiati a fare ciò dall’esempio di Paolo) un prete che restasse celibe per una più grande disponibilità apostolica. Pare che questa sia una delle acquisizioni dell’esperienza occidentale del sacerdozio. Ciò significherebbe che la chiesa dovrebbe scegliere i suoi preti tanto tra i migliori celibi quanto tra i migliori uomini sposati. L’essenziale è di non opporsi, di non clericalizzare il celibato - poiché anche un laico ha diritto a certe forme di massimalismo - di non squalificare il matrimonio perché i diversi sacramenti sono come altrettanti raggi dell’unico sole eucaristico e si comprende male come, se il matrimonio è un sacramento, potrebbe essere incompatibile con quello dell’ordine. Forse il problema sembra insolubile, oggi, nella chiesa cattolica, non solo a causa di un lungo condizionamento storico ma perché manca l’ambiente profondamente ascetico, calamita per tutti verso una autentica castità, suscitata dal primato della via monastica nella chiesa. Al contrario, i deliri contemporanei che concernono la realizzazione dell’uomo attraverso una «libera» sessualità sconvolgono il clero, tanto più che questo è composto ancora da una maggioranza di preti che sono stati «messi da parte» quando erano ancora troppo giovani, in virtù di una concezione individualista e sentimentale della «vocazione» e attraversano la loro crisi di adolescenza a quaranta o cinquant’anni.

 

Il matrimonio è casto attraverso l’integrazione dell’eros nell’incontro di due persone che, trascinate dalla comunione ecclesiale fanno della polarità delle loro nature il linguaggio del loro amore e si offrono reciprocamente il mondo. Durante nove secoli non vi è stato un vero e proprio rituale di matrimonio: esso univa due esseri che, vivendo insieme, si comunicavano insieme. Un uomo e una donna che mettono le radici della vita in Cristo, debbono scoprire il loro amore, debbono rinnovarlo, dargli per ciascuno il volto dell’altro, e per entrambi i volti dei loro figli, ma non debbono inventarlo: esso esisteva prima di loro, li ha guidati uno verso l’altro, è l’amore di Dio e della terra, di Dio e dell’umanità, del Cristo e della sua chiesa. La donna non è nata dal «sonno» dell’uomo ma dalla sua «estasi» come più giustamente traduce la vecchia bibbia greca dei Settanta. Nello stesso modo la morte del Cristo sulla croce è un’«estasi» che fa nascere la nuova umanità. Quest’estasi del crocifisso è la base di ogni amore umano. Un vero amore, anche molto lontano dalle frontiere apparenti della chiesa, ritraccia, più o meno consapevolmente, questa estasi. Se non la conosce, si consuma, o la morte lo interrompe, perché «non esiste amore felice». Lo sa egli? Inizia un’ascesi, che consiste nell’attingere nell’estasi inesauribile del Cristo. Dal suo fianco trafitto sgorgano l’acqua del battesimo e il sangue dell’eucaristia. Dalla beatitudine del suo essere torturato scaturisce lo Spirito, e quando l’amore umano sembra inaridirsi, è sufficiente scavare fino alle falde inesauribili dell’amore divino-umano. Attraverso il pentimento, il perdono, la fiducia senza reciprocità del «deserto», l’altro ci viene restituito all’improvviso, la meraviglia e la gratitudine si approfondiscono e la fedeltà diviene, nello spirito, accesso alla novità: in modo che tra noi si rivela ancora sempre quel «gran mistero» il cui sicuro criterio, contrariamente alle esaltazioni fugaci della passione, potrebbe essere la pace, la gioia, la fiducia condivise.

L’ascesi della vita nuziale comporta anche tre esigenze maggiori.

La prima è l’interiorizzazione, ma non l’elusione dell’ostacolo. L’amore non può durare, può evitare l’affondare nelle sabbie mobili della promiscuità e dell’usura solo se rimane seminato di ostacoli. Nel vero matrimonio l’ostacolo non sparisce ma si interiorizza. Diviene la dura necessità di rispettare l’alterità dell’altro perché questo essere tanto vicino rimanga comunque un prossimo. «Diverrà una sola carne», cioè una sola vita, e non è fusione, ma comunione e occorre sapere rimanere due esseri. Occorre risvegliarsi all’esistenza dell’altro, una esistenza reale, interiore quanto la mia, inaccessibile non nella sua opacità (l’altro diviene allora un oggetto troppo accessibile al mio odio) ma nella sua trasparenza.

La seconda esigenza è il rifiuto di oggettivare l’eros. L’occidente, dopo i silenzi vittoriani, si getta oggi sulle «arti di amare». E certamente, se l’amore è un linguaggio, occorre imparare a parlare bene. Ma a che cosa serve, se non si ha più niente da dirsi, se rimangono solo dei meccanismi ben concatenati? Rifiutare simultaneamente il vagabondaggio dell’immaginario e la meccanizzazione dell’eros, equilibrare l’attenzione dell’altro e la celebrazione della vita, un’ascesi di cui non ci si è mai occupati!

La terza esigenza è che l’amore umano deve compiersi e superarsi in un servizio comune. Una coppia che si richiude su se stessa si auto-condanna. In questo grande movimento di servizio e di vita che, solo, permette alla chiesa di essere se stessa, non esiste altra scelta oltre la distruzione reciproca o la creazione operata insieme. Il fatto che nella tradizione della chiesa indivisa e, ancora oggi, nell’ortodossia, il sacerdozio sia in certo qual modo, qualora si tratti di un prete sposato, assunto non dall’uomo solo ma dalla coppia è d’un immenso, di un esemplare significato.

Interviene a questo punto il mistero del figlio, il mistero proprio della famiglia: «Ecco perché mi inginocchio davanti al Padre, dal quale ogni cosa che è famiglia, in cielo e in terra trae il proprio nome»[6]. In una prospettiva veramente cristiana non si può dire che lo scopo del matrimonio sia la procreazione. Un vero amore non ha scopo; esso è, in se stesso, la propria evidenza. Ma non può quindi non essere fecondo, perché questa fecondità tende a servire e a lottare insieme, ad accogliere insieme il prossimo, o a «mettere al mondo» dei bambini. Poche sono le coppie che mettono veramente al mondo i loro figli! Quante coppie si ripiegano invece su di essi divorandoli con la loro umida adorazione fino a quando questi bambini, con una impietosa brutalità, si liberano da soli da questa sterile matrice familiare. Quanti adulti cercano il senso della vita nei propri figli, anziché trasmetterlo ad essi: sono dei servitori della specie, non della persona. Mettere veramente al mondo i propri figli, significa non solo dar loro la vita ma l’esempio di un’opera creatrice; significa accettare il destino della scorza intorno a una gemma, che protegge durante il necessario periodo, poi si apre poco a poco alle necessità. Significa fare della propria famiglia quella «piccola chiesa» domestica di cui parlava san Giovanni Crisostomo, in cui i bambini, attraverso l’esempio stesso degli adulti, compiono l’apprendistato della doppia apertura verso Dio e verso il prossimo. Com’era sensata, nelle vecchie usanze contadine cristiane, l’abitudine di lasciare sempre un posto libero a tavola: lo sconosciuto che forse avrebbe bussato alla porta, avrebbe potuto essere lo Sconosciuto, perché Dio, si pensava, visita spesso gli uomini sotto un aspetto familiare.

 

Ma il bambino stesso non è forse un piccolo sconosciuto che viene tra noi? Tutte le rassomiglianze che lo plasmano e che ci rassicurano non gli impediscono di essere radicalmente diverso. Sempre di più, lo sappiamo, il bambino nascerà perché desiderato. Vi è qualche cosa di grande in questa libertà che trasforma la fecondità da fatalità biologica in desiderio di un amore più vasto, ma a una condizione: alla condizione che il bambino, anche desiderato e un giorno potrà essere «programmato», sia anzitutto fondamentalmente accolto, e accolto come uno sconosciuto.

 

 

6. Incertezze

Nulla tocca il mistero dell’esistenza personale come questo tema dell’amore umano e questa è la ragione per cui si impongono il rispetto e la discrezione e ancora di più il precetto evangelico di non giudicare. Ricordiamoci l’atteggiamento di Gesù davanti alla donna «sorpresa in flagrante delitto di adulterio»[7]. Ricordiamoci dell’altro passaggio, di una intensità carnale incredibile, in cui lo stesso Gesù lascia che una prostituta gli avvolga i piedi con i propri capelli e glieli bagni di profumi e lacrime. Ogni cosa è impregnata di eternità per la vicinanza della morte e della metamorfosi: «Essa fa ciò a causa della mia sepoltura». Il fariseo che riceve Gesù pensa: «Se quest’uomo fosse un profeta, saprebbe che la donna che lo tocca è una prostituta». Gesù, comprendendo i suoi pensieri, gli dice: «I suoi numerosi peccati sono stati perdonati perché ha molto amato, ma colui a cui si perdona poco ama poco». E alla donna: «La tua fede ti ha salvato, va in pace»[8].

Ricordiamoci, per concludere, l’incontro con la Samaritana - un’eretica! -  presso il pozzo di Giacobbe. Gesù le ricorda tranquillamente che essa ha avuto cinque mariti e che non è unita in matrimonio con l’uomo con il quale ora convive. Questo richiamo non giudica ma afferma una chiaroveggenza che deve far comprendere alla donna l’identità del suo interlocutore. - Signore, - essa gli dice - vedo che sei un profeta - Ed è a questa donna che Gesù rivela non solo il mistero dell’acqua viva ma che «Dio è Spirito e che coloro che lo adorano devono adorarlo in spirito e in verità»[9].

Davanti alla donna adultera, alla prostituta, alla donna dai cinque mariti Gesù, contrariamente ai farisei - e soprattutto ai farisei della cristianità - , rifiuta di dar privilegio alla miseria della carne, di fare del sesso il capro espiatorio della nostra angoscia: individua solo in questa miseria un segno della nostra comune situazione: «Colui che non ha mai peccato getti la prima pietra». Sa anche che quelle donne dall’esistenza sconvolta sono delle umili e che saranno le prime a comprenderlo.

Ecco perché il messaggio cristiano, in questo campo, non è una legge che impone ma una calamitazione da proporre. Non spetta alla chiesa dettare le leggi dello stato o di bloccarle come un qualunque «gruppo di pressione»; la chiesa ispira e santifica, non costringe, ma cerca di trasformare i cuori.

Tuttavia è necessario andare oltre. Anche per i suoi figli, la chiesa deve essere una madre misericordiosa e non un potere giuridico impersonale. I precetti relativi dell’amore umano devono essere adattati dai «padri spirituali» e dai vescovi dotati di discernimento a ogni destino personale, con infinito rispetto. A questo punto interviene, nell’uso canonico dell’oriente cristiano, la nozione fondamentale di «economia» che indica appunto questo misericordioso adattamento. L’ortodossia insiste sul mistero della monogamia come fa il cattolicesimo e forse di più; perché le nuove nozze di un vedovo non vengono incoraggiate e sono accompagnate da un rito penitenziale. Eppure, seguendo la parola di Cristo secondo la quale il divorzio è impossibile per il cristiano salvo in caso di porneia (termine che indica una situazione di adulterio e di fornicazione), avviene che si constati la rovina di una coppia, di registrarne lo sconvolgimento e di concedere nuovamente a un divorziato il sacramento del matrimonio. Ciò dipende dal fatto che questo sacramento non è paragonabile al battesimo in cui la libertà dell’uomo ha davanti a sé solo la grazia offerta. La grazia, nel matrimonio, è offerta ad una coppia cioè all’accordo di due libertà umane. Ora in alcuni casi limite per il discernimento dei quali si esige la massima circospezione da parte dei responsabili ecclesiastici, avviene che una contrizione comune e un perdono reciproco non siano possibili, che la coppia non esista più e non possa più inserirsi come tale nella corrente d’amore che lega il Cristo alla sua chiesa. Come potrebbe la chiesa allontanare questi destini spezzati dalla comunità? Oserebbe forse allontanare il Cristo dalla donna adultera, dalla prostituta, dalla donna dai cinque mariti che ora convive con un uomo che non è suo marito? E chi siamo noi per scagliare la pietra del diritto?

 

7. Donna, portatrice di aromi

Oggi, al termine di un lungo periodo di patriarcato, la donna cerca di affermarsi come una persona umana nella sua compiutezza, in un soggetto libero e responsabile. È il fermento evangelico che agisce, liberandosi finalmente dalle vecchie strutture pagane. Ma la lotta necessaria per l’uguaglianza sociale, dovendo essere condotta, troppo spesso, contro l’uomo, ci lascia incerti sulla vera identità della donna, sul senso della femminilità. Il corpo, l’anima, la maternità, sono certamente dei simboli, ma più che mai dopo tante interpretazioni che hanno definito la donna come un essere inferiore. Ora, per il cristianesimo, il maschile e il femminile non sono delle essenze gerarchizzate, ma delle modalità dell’unica natura umana. Entrambi, l’abbiamo detto, sono presenti in ogni uomo e in ogni donna in modo che la donna, quando esige la propria dignità personale contro l’uomo, comincia ad assomigliare a questi, valorizzando nel proprio odio la sua stessa dimensione mascolina a detrimento della sua femminilità. Donde l’ambiguità dell’attuale «rivoluzione femminile» in estremo occidente. La donna vi insorge a questo titolo contro un freudismo che, ritrovando senza saperlo la conoscenza di vecchi pregiudizi aristotelici e scolastici, la vede come una specie di maschio mancato. La donna protesta contro una società del piacere che fa di essa un oggetto erotico e della sua nudità un mezzo pubblicitario - insomma una totale corruzione dell’immaginario. Essa auspica una reciprocità reale con l’uomo, una partecipazione diretta alla vita della città, in cui ha da tempo dimostrato il proprio valore; la sua compassione attiva, pugnace si risveglia in favore di tutti gli oppressi - quelli del terzo mondo o delle bidonville, quelli delle minoranze disprezzate, quelli delle fabbriche in cui il modo di guadagnarsi da vivere costituisce spesso una perdita dell’anima. Eppure, in mancanza di un’ispirazione veramente spirituale, il caos minaccia e le dominazioni si capovolgono anziché far posto ad una tensione creatrice. La violenza crea un tipo di amazzone omosessuale e dominatrice e l’ignoranza delle discipline della metamorfosi, una volta infrante le vecchie barriere, libera solo degli istinti e delle antichissime magie.

È importante quindi anche in questo campo, purificare e affermare serenamente, una ispirazione veramente cristiana. Si potrebbe suggerire, con Paul Evdokimov, che il mascolino riflette più particolarmente, nella natura umana, il Verbo che struttura e definisce e il femminile, lo Spirito santo che ispira, consola ed incarna. Abbiamo già detto che il termine Rouach, che nelle lingue semitiche indica lo Spirito è molto spesso femminile. Il linguaggio della chiesa stabilisce del resto una stretta corrispondenza tra lo Spirito di ogni santità, Panagion, e la donna per eccellenza, la madre di Dio venerata come la «tutta santa», Panagia. In un testo dell’antichità cristiana, la Didaché, troviamo, a proposito del diaconato, allora conferito tanto alle donne quanto agli uomini: «Il diacono tiene il posto del Cristo e voi l’amerete. Onorerete le diaconesse al posto dello Spirito Santo».

Queste osservazioni ci permettono di decifrare i simboli iscritti nel modo di essere dell’uomo e della donna.

Il movimento mascolino, nella sessualità come nel modo di incedere - incedere fisico ma anche intellettuale - è allo stesso tempo lineare e irregolare mentre il movimento femminile sembra fatto di irradiazione e di continuità. Allo stesso modo, la geometria angolosa del corpo dell’uomo si oppone alla continuità armoniosa del corpo della donna.

L’uomo agisce come l’arciere e mira diritto al bersaglio e la sua volontà si tende per superare l’ostacolo. La donna reagisce con un’azione di presenza in cui una vibrazione di tutto l’essere ha più importanza della volontà astratta. Essa cerca - essa trova, piuttosto, meno efficacità che espressività. Se un bambino attacca, sua sorella si travestirà.

L’uomo è scoppio - di risa e di collera; la donna scorre come l’acqua e sa sorridere come l’acqua.

L’uomo è espansione conquistatrice, mira lontano, lo dice con lirismo. La donna si adatta all’immediato, indica il concreto, è ironica.

L’uomo evade, la donna sprofonda; sua è la preoccupazione, sua è spesso la devozione.

L’uomo pensa con la propria testa, la donna lo fa con tutto il proprio essere. Porta il figlio nella propria carne ed è in connivenza con la vita.

Ma per passare da questa descrizione ambigua all’immagine divina, la verità della femminilità esige un’ascesi di trasfigurazione.

Nelle chiese d’oriente sopra le «porte reali» che precedono l’altare e davanti alle quali i fedeli ricevono la comunione, abitualmente sono rappresentati, ai lati del Cristo in tutta la loro maestosità e in un’attitudine di intercessione, la madre di Dio e san Giovanni Battista. Evdokimov vede in queste due figure le immagini induttrici maschile e femminile. Il Battista, nella discendenza di Elia, è il violento che interiorizza la propria violenza per «preparare le vie del Signore», nella certezza che «egli deve crescere ed io diminuire». Qui l’espansione conquistatrice del mascolino trova la propria croce e la propria metamorfosi. Ad immagine del Battista, l’uomo spirituale non sarà lo sposo che domina e possiede ma «l’amico dello sposo» celeste, colui che sa che la donna, in quanto persona, ha un rapporto immediato con Dio. Quanto alla madre di Dio, essa partorisce la forma divina sulla terra e la forma umana nei cicli, compiendo così la maternità spirituale. A immagine di lei, la maternità attraverso la quale la donna si salva (per riprendere una espressione di san Paolo) non è un destino biologico né il semplice istinto materno, col quale sappiamo che può possedere il bambino fino all’asfissia. La vera maternità si trasfigura, ad immagine di colei che, ai piedi della croce, ricevette la grande consacrazione della maternità universale: - Donna, ecco tuo figlio - le disse il crocefisso indicando il proprio amato discepolo - e chi di noi non è amato da lui? - Solo questa maternità sacrificale, disinteressata, perfettamente compatibile con il celibato può decifrare il senso della maternità fisiologica. Evdokimov afferma che, al limite, la vocazione spirituale della donna consisterebbe nel «generare Dio nelle anime devastate».

Ogni essere umano, sia esso uomo o donna, è chiamato a una certa virilità rispetto alla propria natura - pensiamo alla «donna forte» della bibbia -, ma anche ad una certa femminilità nella sua relazione con Dio. Anche nell’uomo la vita spirituale culmina in un atteggiamento quasi femminile di fronte al mistero, e questa è la ragione per cui si è realizzata l’incarnazione attraverso una donna che oggi si trova al centro della comunione dei santi.

Ciononostante quando l’uomo e la donna, fecondati da Dio, si volgono verso il mondo, ritrovano, trasfigurata, la modalità che domina in lui: l’uno è un risvegliatore, un combattente, mentre l’altra «copre la vita con la sua protezione materna». L’uomo, per risvegliare, ferisce, mentre la donna cicatrizza e guarisce: «ogni donna è una mirrofora», diceva Fédorov. Dei due atteggiamenti fondamentali dell’ascesi cristiana, la vigilanza è virile, mentre la tenerezza è femminile.

 

L’umanità ha inizio con Adamo, per compiersi, attraverso l’Adamo definitivo, divino-umano, il Cristo, in una donna, la madre di Dio. L’asse della chiesa che, in Cristo, è la chiesa dello Spirito Santo non è la gerarchia, ma la santità. Rispetto a questo asse, il sacerdozio d’ordine è strumentale, è una funzione che non conferisce ai suoi detentori nessuna superiorità di essenza. È riservato agli uomini perché il sacerdote, nella celebrazione è l’immagine del Cristo, e il Cristo, pur ricapitolando l’intera natura umana, è uomo e non donna o androgino. Il Cristo non è venuto solo perché lo Spirito possa discendere, ma perché appaia, sotto le lingue di fuoco della Pentecoste, un’umanità rinnovata nel cuore della quale vi è una donna.

Per la donna, rivendicare il sacerdozio d’ordine testimonia di una dimenticanza dello Spirito e della deificazione; è l’amaro frutto della clericalizzazione della chiesa.

È necessario inventare di nuovo il ministero delle diaconesse, espressione della maternità spirituale misteriosamente legata allo Spirito.

È necessario anche che la donna possa essere la moglie del prete, portatrice a sua volta del sacerdozio e che il suo atteggiamento non sia funzionale ma personale, fatto di discrezione e di dedizione nello spirito.

 

È chiaro ora come l’uomo e la donna siano complementari non come due funzioni ma nella complessa totalità della loro esistenza personale.

A questo punto l’eros non è più fascino personale della carne, o uso - platonico o tantrico - «dell’altro» come di un mezzo di estasi, ma attesa di un altro per una comunione di corpo e di anima. Nel difficile dialogo del vero amore, tanto difficile che ha bisogno per sistemarsi, per approfondirsi di tutta la durata di una fedeltà, in questo dialogo in cui «l’anima avvolge il corpo» vi sono due persone che a poco a poco si riconoscono. Allora la donna non è più la donna in generale, femminilità cosmica o eterno «femminino», ma è quel tu che la modalità diversa dalla sua umanità mi aiuta a chiamare. E lo stesso fa l’uomo per lei. Ogni subordinazione è reciproca, in modo che una libertà fa dono di sé ad un’altra. Ciascuno trascende l’istinto di possesso che lo rinchiude nella solitudine e nella morte. L’essere umano, in questa esistenza che non è più dominatrice o disprezzata, ma comunicante, appare doppio ed uno, secondo la reciprocità del rispetto, della celebrazione e della tenerezza.

«Trasportiamo questo tesoro in vasi di argilla». Ma i nostri lunghi cammini nella notte non ci faranno mai dimenticare questo chiarore d’alba, questa scintilla pasquale di un vero amore.

 

 

Da: OLIVIER CLÉMENT, Riflessioni sull’uomo, Milano, 1975, 73-93.



[1] Pierre Emmanuel, Car enfin je vous alme.
 
[2] Gerard Manley Hopkins, Poemi.
 
[3] Gn 2,23/25.
[4] Gal 3,28.
[5] 1 Cor 11,11.
[6] Ef 3,14/15.
[7] Gv 8,3.
[8] Lc 7,36/50.
[9] Gv 4,1/42.

Nessun commento:

Posta un commento