venerdì 19 ottobre 2012

Signore compassionevole, buono e amico degli uomini...



Signore compassionevole, buono e amico degli uomini...

 

di Olivier Clément

 

 

Soprattutto, forse, padre Sophron mi ha fatto capire, delucidando la mia più profonda esperienza, da cosa siamo salvati. Ed è giustamente dall’inferno. L’inferno è il luogo ultimo della salvezza, come canta la liturgia pasquale: “Tutto ormai è riempito di luce, il cielo, la terra, e perfino l’inferno”. Sapersi salvati dall’inferno, salvati nell’inferno, sapere che la sola scelta è di essere il ladrone di destra o quello di sinistra, sempre un ladrone, scoprire non solo i propri peccati al plurale, ma un certo stato di separazione, di fallimento, di asfissia permanente è entrare in una radicale umiltà, in una permanente metanoia, questo “rivolgimento” del nostro afferrare il mondo, questa rottura dell’“idolatria di se stesso” che proiettiamo sugli esseri e sulle cose… “Tieni il tuo spirito nell’inferno, ma non disperare”. Dio incarnato, Dio sofferente sulla croce non solo la morte fisica, ma la morte spirituale, si trova ormai nel luogo stesso della sua propria assenza. Tutto è riempito di luce, perfino l’inferno.

“Sì, dicevo, l’inferno come condizione dell’umanità è abolito, ma la persona può richiudersi in se stessa, magari nel cristallo del suo spirito, e allora non è un altro inferno, non più generico, ma personale, la seconda morte di cui parla l’Apocalisse?”.

Ma padre Sophron mi spiegava dolcemente che non si può fare un discorso obiettivo sull’inferno, che non si può parlare dell’inferno per gli altri. Nessuno è solo, Dio non abbandona nessuno, la comunione dei santi, questi peccatori perdonati, corrode la prigione ultima, quella dell’io che si chiude in se stesso… La salvezza universale non può essere una certezza, sarebbe svuotare la vita spirituale della sua serietà, la libertà umana della sua grandezza tragica. Ma la salvezza universale deve essere l’oggetto della nostra preghiera, del nostro amore attivo, della nostra speranza. È così che padre Sophron è venuto a raccontarmi la storia del calzolaio di Alessandria, che si è trasmessa tra i monaci di generazione in generazione dal IV secolo. Antonio il grande, il padre dei monaci, l’atleta di Cristo, gli chiese un giorno di confermargli se era sulla buona strada. “Sì, gli disse il Cristo, va molto bene, ma c’è ad Alessandria un calzolaio che ti precede”. Antonio va a trovare il calzolaio. Ma quello non ha niente da dirgli, la sua vita è banale. Antonio si presenta. Il calzolaio si getta ai suoi piedi e gli dice: “Forse si tratta di questo. Di tutto quello che guadagno faccio tre parti uguali: una per quelli che sono più poveri di me, un’altra per la Chiesa, la terza per la mia famiglia”. Ma Antonio non è convinto. Lui stesso ha venduto tutti i suoi beni e distribuito il denaro ai poveri dopo aver udito leggere in chiesa l’ingiunzione di Gesù al giovane ricco: “Una sola cosa ti manca: va’, vendi quello che hai, dallo ai poveri… poi vieni e seguimi”. Antonio rivela allora al calzolaio quello che il Cristo stesso gli ha detto. E il calzolaio riflette: “Forse è questo. Tutto il giorno, mentre lavoro, vedo passare tanta gente. Questa città di Alessandria è così grande. Allora prego: Che tutti siano salvati, solo io merito di essere perduto”.

L’inferno non è mai per gli altri. E colui che si scopre all’inferno e, in un certo senso, responsabile e complice dell’inferno, non può non incontrarvi il Cristo.

“Ma se rifiuta di aprire il cuore, allora l’inferno è eterno”.

“Allora siate sicuro che il Cristo vi si trova con lui…”.

 

 

Da O. CLEMENT, L’altro sole. Autobiografia spirituale, Milano, 1977, 180-183.

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