mercoledì 31 ottobre 2012

Halloween, una festa neopagana ed anticristiana

HALLOWEEN, UNA FESTA NEOPAGANA ED ANTICRISTIANA[1]

 
Holy New Martyrs of Russia Parish Bulletin, Mulino, OR.


Tradotto per © Tradizione Cristiana da E. M. ottobre 2011







L’allegra festa della Zucca (Halloween)

Siamo in quel periodo dell’anno in cui la società secolare in cui viviamo si sta preparando per la festa di Halloween. Molti non conoscono le sue radici spirituali e la sua storia, e perché essa contraddice gli insegnamenti della Chiesa. La festa di Halloween ebbe origine in epoca pre-cristiana tra i popoli celtici di Gran Bretagna, Irlanda e Francia settentrionale. Questi popoli pagani credevano che la vita nascesse dalla morte. Quindi celebravano l’inizio del “nuovo anno” in autunno (alla vigilia del 31 ottobre e nel giorno del 1° novembre), quando cominciava, come si credeva, la stagione del freddo, del buio, del decadimento e della morte. Una celebrazione che alcuni chiamavano Samhain[2], una festa mitico-rituale che presentava aspetti di culto orgiastico, di rottura delle norme tradizionali e di riti di propiziazione e fecondazione. A quest’ultimo proposito antichi testi gaelici irlandesi parlano di sacrifici di primogeniti di animali (ma si ipotizza si facessero anche offerte di sacrifici umani), offerti all’idolo Cromm Cruaich[3] (“Testa del Tumulo”). Tale uso crudele sarebbe stato abolito da san Patrizio (“Dindshenchas di Mag Slecht”; Vita Triplice, I, 90-91)[4].

Da un punto di vista cristiano ortodosso, possiamo vedere associate a questa festa molte credenze e pratiche diaboliche, che hanno resistito fino ai nostri tempi. Alla vigilia della festa del Nuovo Anno, i Druidi, che erano i sacerdoti del culto celtico, incaricavano la loro gente di spegnere tutti i focolari e le luci. La sera della festa veniva acceso un enorme falò fatto con rami di quercia (la quercia era considerata sacra dai Celti). Su questo fuoco venivano bruciati i sacrifici come offerta, al fine di placare e allettare Cromm Cruaich, il Principe della Morte. Si credeva anche che Cromm Cruaich, essendo lieto dalle offerte, permettesse in questo giorno di festa alle anime dei defunti di tornare alle loro case per una visita. È da questa convinzione che è venuta la pratica di vagare nel buio in costumi imitando fantasmi, streghe, folletti, fate, ecc... La vita è entrata in amicizia e comunione con la morte attraverso quello che era, ed è ancora, un atto rituale di imitazione, attraverso il costume e l’atto di vagare nel buio della notte, come si credeva vagassero le anime dei morti.

Il dialogo di trick or treatdolcetto o scherzetto[5] è anche parte integrante di questo sistema di credenze e pratiche. Si credeva che le anime dei morti che erano entrate nel mondo delle tenebre, del decadimento e della morte, e quindi in totale comunione e sottomissione a Cromm Cruaich, portassero l’afflizione della grande fame in occasione della loro visita durante la festa. Da ciò è scaturita la pratica dell’accattonaggio, che era anche una messa in atto rituale e l’imitazione di ciò che i Celti credevano essere le attività delle anime dei morti nelle loro visite nella festa. Associata a questa c’era anche l’ulteriore implicazione che se le anime dei morti e dei loro imitatori non fossero state placate con la “tratta” (ingl. treats), cioè le offerte, allora l’ira e la rabbia di Cromm Cruaich si sarebbero scatenate attraverso un sistema di “trucchi” (ingl. tricks), cioè maledizioni. Questo è il vero significato di questa festa pagana.

È quindi evidente che per un cristiano ortodosso parteciparvi a qualsiasi livello, è impossibile e idolatra, risolvendosi in un autentico tradimento di Dio e della Chiesa. Se vogliamo partecipare all’atto rituale di imitare i morti e vagare nelle tenebre chiedendo dolci per tratta o offrendoli ai bambini, allora abbiamo volutamente cercato la comunione con i morti, nella quale il Signore non è Cromm Cruaich, bensì Satana[6]. È a Satana dunque che queste tratte sono offerte, non ai bambini.

Ci sono altre pratiche connesse con Halloween da cui dobbiamo stare lontani, come la stregoneria, la cartomanzia, la divinazione, i giochi d’azzardo, la magia e l’intaglio di una brutta faccia su di una zucca per poi metterci una candela accesa all’interno trasformandola così nel famigerato Jack O’Lantern[7]. La zucca (anticamente erano utilizzate altre verdure) veniva scolpita dai Celti a imitazione dei morti e utilizzata per trasmettere la nuova luce (dal sacro fuoco della quercia), alla casa dove veniva lasciata bruciare la lanterna nella notte. Questa “santa lanterna” non è altro che un’imitazione della vera santa luce votiva (lampada) offerta innanzi all’icona di Cristo e dei santi. Anche l’uso e l’esposizione di Jack O’Lantern comporta la partecipazione a questa festa della “morte” in onore di Satana.

I Santi Padri del primo millennio (un tempo in cui la Chiesa era una e rigorosamente ortodossa) avevano contrastato questa festa pagana Celtica, introducendo la festa di Tutti i Santi[8]. È da essa che è venuto il termine Halloween. La parola Halloween ha le sue radici nell’antico inglese All Hallow E’en, cioè “Vigilia di commemorazione di tutti coloro che sono stati santi (santificati)”. Purtroppo, a causa di una mancanza di conoscenza o di comprensione, la festa pagana celtica che si celebra lo stesso giorno della festa cristiana di Tutti i Santi (nella cristianità occidentale) è finita per essere conosciuta come Halloween.

La gente che era rimasta pagana e quindi anti-cristiana reagì al tentativo della Chiesa di soppiantare la loro festa celebrando questa sera con maggior fervore. Molte di queste pratiche comportarono la profanazione e l’irriverente dileggio della Chiesa e delle sacre reliquie. Le cose sante, come le croci e la riserva eucaristica, venivano rubate e utilizzate in modo perverso e sacrilego. La pratica dell’accattonaggio (delle offerte) divenne un sistema di persecuzione designato a perseguitare i cristiani che erano, per loro convinzioni, impossibilitati a partecipare facendo offerte a coloro che servivano il Signore della Morte.

Si può vedere nella società occidentale contemporanea che il tentativo della Chiesa d’Occidente di soppiantare la festa pagana con una festa cristiana non è riuscito. Come ha fatto allora qualcosa che è in così evidente contraddizione con la santa fede ortodossa ad essere stata accettata tra i cristiani?

La risposta è l’apatia spirituale e la svogliatezza, che sono le radici spirituali dell’ateismo e dell’allontanamento da Dio. La società di oggi adduce che Halloween e altre simili festività, nonostante la loro manifesta origine pagana e idolatra, sono comunque innocue e senza nessuna conseguenza. Ad una più attenta considerazione, queste feste pagane sono la fonte di distruzione di qualsiasi tipo di fondamento spirituale e portano all’incredulità e all’ateismo assoluto.

Halloween mina le basi stesse della Chiesa, che è stata fondata sul sangue dei martiri, che avevano rifiutato, dando la loro vita, di partecipare a qualsiasi forma di idolatria.

La santa Chiesa deve assumere una posizione ferma nel contrastare qualunque tipo di evento pagano. Cristo ci ha insegnato che Dio è il giudice in tutte le nostre azioni e convinzioni e che siamo o PER DIO o CONTRO DIO. Non vi può essere un approccio neutrale o una via di mezzo.

Oggi assistiamo ad un revival di culti satanisti, si parla di messe sataniche condotte nella notte di Halloween. I bambini vengono rapiti dai satanisti per i loro sacrifici rituali. Preti ortodossi vengono uccisi ritualmente, come è successo più di una volta in California. Ovunque Satana è proteso a irretire il maggior numero possibile di persone innocenti. Le edicole sono piene di materiale sullo spiritismo, fenomeni soprannaturali, sedute spiritiche, profezie e tutti i tipi di opere ispirate dal demonio. Queste opere servono tutte Satana, perché non sono il frutto del Santo Spirito, ma il frutto dello spirito di questo mondo.

 
Halloween non è una festa per bambini!

È questo il giorno più solenne per streghe, stregoni e adoratori del demonio in tutto il mondo in cui tentano di interrompere la Veglia di preghiera del cristiano per Tutti i Santi (secondo il calendario latino). Con tutte queste forze malvagie che si manifestano in questa sera, che cosa pensiamo quando mandiamo i nostri figli fuori nella notte, e peggio li facciamo passare come piccoli demoni, spiritelli maligni, streghe e alieni?

Deve essere rigorosamente evitato il Dolcetto o scherzetto. Nella migliore delle ipotesi, si insegna ai nostri figli a mendicare o minacciare per avere caramelle, nel peggiore dei casi, è pericoloso e ricostruisce le pratiche di un culto satanico del passato. Dobbiamo anche evitare ogni sorta di party o festa di Halloween così come le decorazioni nelle nostre case. Se i nostri figli frequentano scuole che tengono tali feste, non importa in quale giorno, non devono partecipare.

Oggi, le scuole abbracciano apertamente il male come un tema interessante e tutto il mese è dedicato ad attività di Halloween. Pertanto, i bambini ortodossi che non sono scolarizzati a casa devono essere tenuti fuori dalla scuola durante il mese di ottobre, o almeno durante l’ultima settimana di ottobre.
 
Per combattere queste influenze del male, la Chiesa celebra in questa notte la Veglia di san Giovanni di Kronstadt[9]. La casa di Dio è il posto più sicuro in cui possiamo essere. Halloween non è un gioco, ma un momento di timore e tremore. Non bisogna, certamente, soggiacere alla paura; tuttavia occorre tenersi lontani dal male, in tutte le sue forme, non solo e non tanto per la paura del male, quanto per il giusto timore del Signore che ci chiede di astenerci dal male per compiere il bene, poiché “Il timore di Dio è l’inizio della Sapienza”, come dice il santo profeta re Salomone (Libro dei Proverbi 9,10). Imparare questo non farà male ai nostri figli.



--------------------------------------------------------
 
[1] Titolo originale: The Joyous Feast of the Pumpkin (Halloween) [L’allegra festa della Zucca (Halloween)], in: Bollettino della Parrocchia dei Santi Neo-Martiri di Russia, Mulino, OR. Vol. 11, N° 99, ottobre, 1998. L’articolo è stato riveduto e modificato in alcuni punti della traduzione italiana; il testo originale è consultabile sul sito: http://www.fatheralexander.org/.
[2] L’autore dell’articolo nella sua versione originale inglese ha fatto confusione sul termine Samhain, che è il nome della festa celtica, scambiandolo con quello della divinità che veniva adorata in quell’occasione, che era in realtà Cromm Cruaich, come correttamente riportato nella nostra traduzione/revisione del testo.
[5] La traduzione italiana di trick or treat in dolcetto o scherzetto non rende in modo chiaro le sfumature linguistiche site nelle radici dei due termini, come avviene invece nella lingua inglese.
[6] È chiaro il contesto necromantico della originaria festa celtica, scioccamente imitato oggi dai più senza comprenderne le nefaste conseguenze spirituali; poiché la necromantica comunione coi morti celebrata ad Halloween non ha nulla a che vedere con la comunione dei santi che si sono addormentati nel Signore e in Lui vivono, infatti “Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono in lui” (Luca 20, 38).
[7] Usanza di Halloween legata alla leggenda di un tale fattore di nome Jack, la cui anima, essendo egli in vita sceso a patto col diavolo, alla sua morte è rifiutata sia dal cielo che dall’inferno, divenendo un’anima dannata costretta a errare sulla terra; vedi: http://it.wikipedia.org/wiki/Jack-o%27-lantern.
 [8] La celebrazione della festa di Ognissanti, istituita da papa Bonifacio IV nel 610 veniva originariamente celebrata il 13 maggio, come festa di tutti i Martiri. La celebrazione al 1° novembre risale all’VIII secolo, quando papa Gregorio III spostò la data. Questa scelta si inserisce nell’azione pastorale di questo pontefice e del suo predecessore, tesa alla conversione delle popolazioni Germaniche presso cui erano radicate le tradizioni del mondo celtico, che alla medesima data celebravano la festa di Samhain. L’intento era quello di sovrapporre la nuova festività alla precedente per una rielaborazione dei miti celtici alla luce della nuova simbologia cristiana. Fu invece sant’Odilone di Cluny che nel 998 dispose che in tutte le abbazie cluniacensi il 2 novembre, dopo i vespri di Ognissanti, si celebrasse la memoria dei defunti e si pregasse per loro. Successivamente questa pratica si estese a tutta la Chiesa occidentale, costituendo per quella data il Giorno di commemorazione dei defunti. (cfr. wikipedia alle voci Halloween e Odilone di Cluny).
[9] La festa cade nella ricorrenza della nascita del santo 19 ottobre (1 novembre del calendario gregoriano). Chi segue il nuovo calendario celebra la vigilia dei santi anargiri i martiri Cosma e Damiano, che ci ricordano la testimonianza di Cristo di tutti i martiri, che preferirono perdere la propria vita per salvarla in Cristo, e sia in vita che di fronte alla morte, non accettarono compromessi né con l’idolatria pagana, né col mondo ed il suo signore.
 
 

Io parto, ma molti torneranno a Cristo


“IO PARTO, MA MOLTI TORNERANNO A CRISTO”
(Il cammino della malattia e la fine di mia madre)
Un autentico monaco è il fiore di un onesto matrimonio. Quest’opinione suggerita dai Padri avviene nella pratica. Dalla preghiera degli avi che hanno combattuto cristianamente in questa vita proviene una grande benedizione che s’incarna sul volto dei monaci. Le radici ortodosse dei discendenti nutrono l’albero del monachesimo. Dietro ad ogni monaco si nasconde una madre che vivifica l’inestinguibile fiamma di una lampada, o un padre che si guadagna il pane col sudore della fronte glorificando il Signore; si nasconde un nonno che compie metànie dinnanzi ad ogni icona e una nonna che intercede dal Cielo.
Un simile fiore è anche colui che ha scritto il seguente testo. Con la veste monastica, lo schema di lutto, egli glorifica il Signore per i suoi infiniti doni e ringrazia la propria madre che con la sua benedetta vita, la beata dormizione e la sua inesauribile intercessione l’hanno fatto divenire monaco.
Il Grande Lunedì (Lunedì Santo) del 1971 mia madre fece degli esami e delle radiografie. Da essi si rivelò chiaramente un cancro in stadio avanzato. A lei e a me dissero che era echinococco e che con un intervento sarebbe stata bene. Da allora iniziai a vedere mia madre più concentrata in se stessa. Sembrava di sapere che stava accadendole qualcosa di molto grave.
Subito dopo Pasqua la portarono a Tessalonica e con la collaborazione del dott. Aletra e del dott. Katsochi, entrò nell’Ospedale A.CH.E.P.A.. L’operazione avvenne subito e durò circa sette ore e mezza. In lei il cancro si era diffuso ovunque. Provarono ad asportarle quello che si poteva asportare. Levarono l’intero stomaco perché era rovinato e unirono l’esofago con la fine del duodeno. Inoltre, pulirono dal cancro i reni, il fegato e altre parti. Per l’operazione le effettuarono un taglio attorno al corpo di 70 cm circa. Dopo l’intervento era talmente cambiata che ebbi difficoltà a riconoscerla.
Nel frattempo, durante gli esami all’Ospedale, i medici dimenticarono i documenti che diagnosticavano la malattia di mia madre sul suo comodino. Poiché in passato essa lavorava in una farmacia, conosceva la terminologia delle malattie e così, osservando la definizione “c.o allo stomaco”, capì subito di che si trattava. Tuttavia non fece mai capire di esserne a conoscenza. Dinnanzi a noi diceva sempre che sarebbe guarita. Solo mio padre, dopo la sua morte, ci narrò la sua reazione. Quando lo seppe volse subito lo sguardo al Cielo e disse: “Ti ringrazio, Cristo mio, che mi hai visitato così presto. Ti prego, dammi forza e pazienza fino alla fine della mia vita”.
Rimase in Ospedale per 20 giorni fino a quando si chiusero le sue ferite. Si nutriva attraverso un piccolo tubo inserito nell’area addominale e poiché le avevano tolto lo stomaco, le bastava una tazza di tè per saziarsi. Per questo ora doveva mangiare ogni due-tre ore per tutto il resto della sua vita.
Appena dimessa dall’ospedale, in quel momento critico della sua salute, il suo organismo reagì negativamente. Iniziò a vomitare ripetutamente circa 30-40 volte al giorno. La portammo subito all’A.CH.E.P.A. Purtroppo i medici non poterono fare assolutamente nulla. Non appena prendeva qualcosa il suo organismo lo respingeva. Iniziò ad avere terribili dolori e un’indescrivibile pena. Conduceva una vera lotta quotidiana contro se stessa.
Questo, però, non cambiò in nulla i suoi rapporti con Dio. La sua anima volava come prima, quando era sana. Era sempre allegra e fino ai suoi ultimi momenti s’interessava di ogni cosa che avveniva in casa stabilendo delle soluzioni. In quel grande Ospedale che è l’A.CH.E.P.A., divenne l’interesse di molti. Divenne una missionaria particolarmente nella sua corsia ospedaliera. Mi ricordo che influì su una prostituta, pure lei con un cancro, e le mutò talmente il comportamento che si pentì poco prima della sua fine. Inoltre, non dimenticava di leggere le vite di diversi Santi e di compiere pure molte preghiere. Si era confessata e si sentiva pronta per il “grande viaggio”. Finché era in Ospedale la sua sola angoscia era quella di poter riconciliarsi con una famiglia che da parecchi anni serbava rancore nei suoi confronti. Dio non le negò neppure questo desiderio. Ricordo che una Domenica, durante l’orario delle visite, arrivò una donna della summenzionata famiglia. Era così dispiaciuta per il suo errore che si buttò tra le sue braccia piangendo continuamente. In seguito arrivò anche suo marito che si riconciliò con lei. Quel giorno fu una vera e propria festa per mia madre. Glorificava continuamente Dio e Lo ringraziava per la Sua evidente visita.
Tornò all’A.CH.E.P.A. una seconda volta per altri 20 giorni. In quei giorni si dissipò ogni speranza di miglioramento e di salvezza della paziente. Poi la riportammo a casa nostra [a Serres] dove rimase fino alla fine della sua vita.
Con il passare del tempo il suo stato peggiorava. Mangiava assai poco molte volte al giorno ma ogni volta vomitava. Ho calcolato che le volte in cui vomitava andavano da un minimo di venti ad un massimo di sessanta al giorno. Ebbe fino alla fine terribili pene e, di tanto in tanto, acuti dolori. Però non si esprimeva mai. Non diceva mai “Sento questo” o “Sento quest’altro”. Le chiedevamo insistentemente cosa provasse e difficilmente ci rispondeva. Se capitava che vomitasse senza che vi fosse alcuno presso di lei, si levava dal letto e puliva senza far rumore in modo da non farsi notare dagli altri e non recare loro dispiacere. In genere, tutto il corso della malattia fu per lei un vero Golgota!
Questo non la staccò dal resto della sua famiglia e dai suoi problemi. Partecipava a ogni cosa con tutta la sua forza. Mi ricordo che fu lei a proporre di mandarmi in un campeggio cristiano perché ero piccolo e non voleva che la vedessi afflitta. Così se, fino ad allora non avevo molti rapporti con la Chiesa, quel campeggio mise le basi per il mio cammino successivo. Dopo di ciò iniziai a sentire una grande sicurezza accanto a persone spirituali che ci confortarono in questa prova e che mi hanno aiutato a superare velocemente questo spiacevole fatto. Lei non trascurò neppure mio padre. Continuò ad aiutarlo, per quanto possibile, negli affari del negozio. Colui che, però, trasse maggior giovamento fu mio fratello. Quell’anno si stava preparando per gli esami d’ammissione all’Università e la maggior parte del tempo rimaneva a casa osservando meglio di tutti la lotta di mia madre e partecipando maggiormente al suo dolore. Riuscire a entrare al Politecnico in queste condizioni fu veramente eroico. Questo non fu umano: furono senz’altro le preghiere di mia madre ad aiutarlo.
Il tempo passava così e più passavano i giorni più il suo stato peggiorava. Molte volte la assalivano delle crisi dalle quali rinveniva con difficoltà. Una volta l’abbiamo ricoverata all’Ospedale della nostra città, mentre altre volte chiamavamo il medico da Tessalonica. Benché lei stessa non volesse tutto ciò, alla fine cedette.
Le ultime due settimane stava continuamente con delle flebo. Il suo organismo non accettava più niente. Nel frattempo, il cancro andava avanti continuamente e alla fine arrivò anche agli intestini. Quello fu il culmine della sua croce. Poiché gli intestini si chiusero e non poteva andare di corpo le feci uscivano dalla sua bocca. Lei lo capiva ma ci rassicurava fingendo che non fossero feci ma cibo. Eppure lo erano chiaramente. In quella terribile situazione, come prima, non la sentimmo mai fare un disappunto. Faceva tutto, qualsiasi cosa fosse, in totale silenzio come se nulla succedesse. Non la vidi mai agitata. Aveva sempre un’inesprimibile serenità sul suo volto che, guardandola, calmava anche te.
Domenica 24 Ottobre venne un medico da Tessalonica che ci diede brutte notizie: era ormai alla fine. Il medico le dava ancora qualche giorno di vita. Pian piano iniziarono a visitarla i suoi conoscenti. Arrivò il suo padrino e, invece di consolarla lui, avvenne il contrario. Le prove continuavano. Seppe che era morta una sua zia molto amata (una sorella di suo padre) e che una persona del vicinato a lei ben nota si era suicidata. Tuttavia, come se non vivesse in terra, non si intimorì per nulla.
Martedì 26 Ottobre, il giorno dell’onomastico di mio padre, ci furono delle allegre novità. Uscirono i risultati degli esami d’ammissione all’Università e mio fratello fu ammesso ottavo in graduatoria al Politecnico di Patrasso. Mi ricordo che mia madre si mostrò molto contenta. Quando lo seppe ringraziò calorosamente il Signore con quanta forza le era rimasta e disse la preghiera seguente: “Magari Dio concedesse a tutte le madri del mondo di assaporare questa gioia”. Ma la cosa piacevole fu subito riposta poiché il dolore era maggiore. Il suo stato peggiorava permanentemente. Il giorno dopo propose da sola di comunicarsi ai Divini Sacramenti. Allora, per la prima volta, sentivo le preghiere della Santa Comunione che mia madre diceva a memoria. Comunicò con molta gioia al Corpo e al Sangue del nostro Sovrano Cristo vivendo profondamente il passo della preghiera: “viatico per entrare nella vita eterna”.
Sabato 30 Ottobre mio padre e mio fratello fecero i biglietti per recarsi a Patrasso per sistemare mio fratello nella sua nuova residenza. Verso pomeriggio mia madre chiese loro di rinviare il viaggio perché non si sentiva bene. Disse loro chiaramente: “Stasera morirò. Sistemiamo per questo la casa perché sia pronta per il funerale”. Lei stessa propose di preparare e stendere tutto ciò che serviva per i letti invernali nelle stanze e, inoltre, si alzò per guidare la loro sistemazione. Mio padre andò ad avvisare tutti i parenti perché venissero a trascorrere insieme a lei la sua ultima sera sulla terra. In questo modo nella stanza c’era mio padre, mio fratello, sua madre, sua sorella, sua nonna, due sue zie e altre sue cugine con le quali aveva uno stretto legame.
Scorrevano momenti sconvolgenti. Tutti stavamo piangendo. Non potevamo trovare sollievo dal dolore. Solo lei era calma. Ogni tanto ci consolava, ciascuno separatamente. E, mentre passava il tempo, ad un certo momento nel fragile silenzio che prevaleva nella stanza mia madre ci disse: “Perché possa andarmene presto e facilmente leggiamo il Salterio” (aveva l’abitudine di leggere lei stessa il Salterio per tutti i conoscenti defunti). Così iniziò la lettura, mentre lei cercava di alzarsi stendendosi in piedi. Ma questo le provocò orribili dolori nelle parti dell’intervento. La rimproverammo ma fu irremovibile. Ci diceva che era un peccato sdraiarsi durante la lettura del Salterio. Continuai in tal modo a leggere con mio fratello. Naturalmente lei partecipava con noi alla lettura di molti Salmi che conosceva, mentre gli astanti si misero in ogni angolo aspettando lo sviluppo della situazione. Lei conduceva l’ultima e più grande lotta con la sua malattia. Tutta quella sera aveva un’indescrivibile pena e soffriva continuamente. Mi ricordo che a volte ci diceva: “L’anima esce con molta fatica!”.
Verso mezzanotte disse a sua madre di portare pane e formaggio per i presenti che assistevano perché dovevano senz’altro avere avuto fame. Poi si alzò lei stessa, distribuì dei piccoli tovaglioli e offrì un pezzo di pera a ciascuno. La rimproverammo poiché si era alzata dal momento che pure noi avremmo potuto fare altrettanto. Allora ci disse: «Non volete mangiare qualcosa prendendola dalle mie mani per l’ultima volta?». Poi andò a pettinarsi per essere pronta. Riuscì ad ingannare i pusillanimi, tra quelli che erano presenti nella stanza. Se ne andarono, così, sua sorella, io, mio fratello e altri parenti.
La lettura del Salterio fu continuata dalle mie zie che la portarono a termine. Poi iniziò a dare istruzioni a sua madre e alle sue cugine per la preparazione del funerale: indicò che veste le avrebbero dovuto far indossare, come bisognava preparare la gente e dove avrebbero dovuto distribuire il resto dei suoi vestiti. Inoltre pregò loro di non farle indossare calze di nylon, perché sotto terra non si sarebbero decomposte. A sua madre disse di stare in casa quanto più avesse potuto per prendersi cura di noi.
Poi chiamò mio padre. Lo pregò di sposarsi presto e di non ascoltare la gente. Gli disse in particolare: “Sei giovane e i ragazzi sono maschi. Avete bisogno di una donna in cucina e in lavanderia; il lavoro non è finito. Per questo sposati presto. Non ascoltare la gente. Lasciali dire quello che vogliono. Tu guarda al tuo interesse”. In quel momento tolse il suo anello, lo diede a mio padre e con incredibile sangue freddo gli disse: “Da me sei ormai libero…”. Mio padre mise subito nuovamente al suo dito l’anello e provò a consolarla facendo finta che non sarebbe morta. Ma lei era calma e sapeva cosa sarebbe successo. Dopo la sua morte trovammo l’anello sotto il guanciale chiuso in un fazzoletto.
Aveva detto a tutti in modo un po’ profetico: «Io parto, ma molti torneranno a Cristo!». E difatti successe così. Mio padre iniziò a credere in Cristo più calorosamente di prima. Mio fratello, da ragazzo mondano qual era, cambiò totalmente. L’esempio di nostra madre lo cambiò al massimo. Non appena andò all’Università divenne membro vivo della Chiesa. Anch’io, dopo la sua morte, amai maggiormente la Chiesa e da allora le sue preghiere tengono tutti noi sulla strada di Dio. Anche tutti gli altri suoi parenti, altri poco, altri molto, cambiarono. Molti si convertirono e tornarono a Cristo.
Quando finì la lettura del Salterio, essa chiese a tutti perdono e si voltò all’icona di Cristo dicendo: “Ora, Cristo mio, sono pronta. Vieni con benevolenza”. Subito le venne della tosse. Una mia zia le porse prontamente dell’acqua. Mia madre, però, la fermò dicendo: «Non ce n’è bisogno. Questa non è tosse. È un rantolo. Tra un po’ parto”. Allora mio padre le prese la testa perché non si affaticasse e dopo cinque o sei profondi respiri spirò tra le sue braccia!
Così, come silenziosamente visse nei suoi 41 anni, allo stesso modo se ne andò in Cielo. Se ne andò per incontrare Colui che desiderò più di noi.
Ora, pensandoci nuovamente, credo che l’atteggiamento che lei tenne nell’ultima sua sera non differisse in nulla da quello dei Martiri della nostra Chiesa i quali, separandosi da ogni cosa umana, bruciavano di amore divino. Lo stesso vale anche per mia madre. Non la commuoveva nulla di terreno. Stava lasciando suo marito, i suoi due figli, i parenti, una grande e nuova casa, una vita comoda. Il suo cuore, però, era rivolto verso un’altra parte: batteva per Cristo.
Alle 4,30 del mattino di Domenica del 31 Ottobre 1971 ci stavamo preparando per il suo funerale. La nostra casa divenne un luogo dove la gente si recava per darle l’estremo saluto. Passarono centinaia di persone per baciarla per l’ultima volta. Tutti piangevano. Il funerale ebbe luogo Lunedì 1 Novembre con l’accompagnamento di centinaia di persone. La venerarono tutti, piccoli e grandi, credenti e non credenti.
Questa fu la fine di una vera anima ortodossa, per la quale tutta la sua vita era un continuo riferimento a Dio. Tutta la sua lotta era rivolta a come potesse amare sempre più Dio e gli uomini. Per questo la maggior parte del suo tempo libero la dedicava in chiesa o in qualsiasi altra manifestazione cristiana o occupandosi di persone che avevano bisogno di consolazione.
Qualche volta mi sovvengo della sua figura quando sentiva la campana della chiesa; sembrava che si elettrizzasse. Benché avesse molti impegni, poiché oltre a quelli della casa aveva anche la gestione del negozio di mio padre, preferiva far tardi per finirli piuttosto che perdere l’ufficiatura, anche se si trattava di un semplice Vespro. Se c’era una veglia durante la notte arrivava tra i primi anche se tutti noi la prendevamo in giro. Inoltre rispettava tutti i digiuni indicati dalla Chiesa e quando doveva comunicarsi digiunava l’intera settimana.
Anche l’amore verso il suo prossimo non veniva meno. In tutto il nostro quartiere era un polo d’attrazione per tutti. Non c’era problema a cui non partecipasse per la sua soluzione, come pure non c’era gioia a cui non prendesse parte. Era l’ornamento del vicinato. Tutti i poveri, gli anziani e i malati aspettavano la consolazione e il riposo da Dèspina. Molte volte lasciava gli impegni di casa e correva in misere case per prendersi cura di anziani. Se non puliva loro la casa, non li lavava e non dava loro da mangiare, non se ne andava anche se si fosse fatto tardi. Faceva questo naturalmente con il consenso di mio padre. Ancora oggi ci sono dei vecchietti ciechi in casa di riposo e degli anziani in città i quali, se qualcuno li accudisce con cura particolare e affetto, subito chiedono: “Sei forse Dèspina?”, senza sapere che è morta da 9 anni! L’affetto di questa donna rimase profondamente impresso nella loro memoria!
Per l’amore e il discernimento che la distingueva, divenne causa d’invidiabile unione tra la gente del vicinato e soprattutto tra i parenti. Fino ad oggi ci sono persone che ammirano l’unione dei suoi parenti che naturalmente risulta essere opera sua.
Questi sono i frutti della sua lotta. Purtroppo la sua lotta non la conosce nessuno, tranne Dio. Sapeva nascondersi molto bene dagli uomini. Così riuscì ad arrivare ad alti livelli di umiltà. Non è mai stata sentita vantarsi per qualcosa. Le piaceva molto innalzare ed elogiare gli altri e abbassare se stessa. Nonostante che nessuno parlasse della “preghiera di Gesù”, essa aveva un continuo ricordo di Dio e tutta la sua vita era un “Gloria a Te, o Dio”.
Da questi pochi elementi riferiti, appare in modo evidente che la sua figura è una testimonianza e una confessione odierna di esperienza ortodossa vissuta dei comandamenti del Signore. Seguendo fedelmente la Tradizione Liturgica della nostra Chiesa e sforzandosi continuamente di vivere nell’umiltà e nell’ombra, essa incontrò velocemente il desiderato Gesù.
Magari potessimo anche noi amare tanto autenticamente e ortodossamente Dio e gli uomini come li ha amati lei! La sua memoria sia in eterno e le sue preghiere ci accompagnino per tutta la nostra vita. Amìn.



martedì 30 ottobre 2012

L'uomo illuminato dalla Grazia di san Teofane il recluso


XXX lettera di san Teofane il recluso

 

 

                [Studio della condizione interiore dell’uomo, illuminato dalla grazia, attraverso le parole di Macario il Grande. I metodi per suscitare e rafforzare la decisione di una vita buona.]

 

 

            Sono impaziente. Prendo la penna e comincio di nuovo a conversare con voi dell’attraente condizione di chi è toccato dalla grazia, per avviarvi sul cammino per raggiungerla, appropriarsene e radicarsi in essa. Solo che, questa volta, non vi proporrò del mio, ma vi riporterò le parole del saggio Macario il Grande e precisamente quelle della sua diciottesima conversazione.

            “Chi è ricco nel mondo e possiede un tesoro nascosto, con questo tesoro o ricchezza può comprare ciò che vuole. Così quelli che hanno guadagnato e posseggono già il tesoro celeste, la grazia, con questo tesoro acquisiscono ogni virtù e con lo stesso tesoro accumulano ancora più ricchezza celeste. L’Apostolo dice: ‘Abbiamo questo tesoro in vasi di creta’ (2 Cor 4, 7), cioè nella carne, siamo resi degni di acquisire tale tesoro, la forza santificante dello Spirito”.

            “Chi si è procurato e possiede in sé il tesoro celeste dello Spirito, compie con purezza e irreprensibilmente, grazie ad esso, ogni giustizia secondo i comandamenti e ogni opera virtuosa senza costrizioni e difficoltà. Preghiamo Dio, cerchiamo e imploriamo che ci venga fatto il dono del suo Spirito, in tal modo potremo seguire irreprensibilmente e con purezza tutti i suoi comandamenti e compiere ogni sorta di giustizia con purezza e perfezione”.

            “Bisogna costringersi a chiedere al Signore che ci renda degni di procurarci il tesoro celeste dello Spirito e accoglierlo e giungere alla condizione di compiere senza fatica e facilmente – con purezza e semplicità – tutti i comandamenti del Signore, che prima non potevamo adempiere, pur mettendocela tutta. Possiamo procurarci questo tesoro grazie ad una ricerca assidua, grazie alla fede e alla pazienza nel faticare in questa ricerca. Bisogna chiedere a Dio, con fede e col cuore reso infermo dal peccato, che ci doni di ottenere la sua ricchezza nei nostri cuori, nella forza e nell’efficacia dello Spirito”.

            San Macario descrive così ciò che accade in coloro in cui la grazia divina inizia a manifestare sensibilmente la sua opera:

            “Talvolta essi sono contenti come se fossero alla mensa del re, e si rallegrano con gioia e contentezza indicibili. Altre volte ancora, sono come una sposa che trova una pace divina in compagnia del suo sposo. Altre volte, come angeli immateriali che si trovano ancora nel corpo, sperimentano in sé una straordinaria leggerezza ed elevazione. In altre occasioni sono come ebbri di una bevanda, rallegrati e rasserenati dallo Spirito nell’ebbrezza dei sacramenti spirituali divini in altri ancora lo Spirito accende in loro un tale amore che, se fosse possibile, farebbero posto nel loro cuore ad ogni uomo, senza distinguere il cattivo dal buono. Altre volte, nell’unità dello Spirito, si abbassano a tal punto di fronte ad ogni uomo che si considerano gli ultimi e i più piccoli di tutti. Altre ancora la loro anima si immerge in una profondissima quiete, nel silenzio e nella pace; oppure sono resi sapienti dalla grazia nel comprendere qualcosa e, in una saggezza indicibile, nella visione di quanto è impossibile esprimere a parole. Altre volte, infine, l’uomo diventa un uomo comune”.

            Che condizione desiderabile! Ma ecco ancora un piccolo saggio sulla condizione interiore dell’uomo illuminato dalla grazia.

            “Quando l’anima ascende alla perfezione dello Spirito, si purifica completamente da tutte le passioni e, in una comunione inenarrabile con esso, giunge all’unione e ad amalgamarsi con lo Spirito consolatore e, in questa condizione, si rende degna di diventare spirito. Allora essa diventa tutta luce, tutta occhio, tutta gioia, tutta quiete, tutta amore, tutta misericordia, tutta grazia e bontà”.

            Ecco come ottennero e si sforzarono di raggiungere questa condizione i santi asceti! Sarete d’accordo sul fatto che c’era e c’è “qualcosa”, un motivo per cui faticare. Ed è aperto l’ingresso. Non si tratta di un giardino riservato. Questi beni sono promessi a tutti e la caparra, data per acquistarli, è la grazia dello Spirito Santo nel battesimo e nella cresima. A noi tocca soltanto frugarci dentro e trovare questo tesoro. Esso è nel nostro giardino, basta prendere la vanga e iniziare a scavare. Fin dai primi colpi di vanga si comincerà a sentire il tintinnio dell’argento e dell’oro. Basterà darci un’occhiata per vedere tutto il tesoro. Allora la gioia non avrà misura.

            Orsù! Perché, ora, la nostra situazione non progredisce?! Nella scorsa lettera vi ho indicato la strada che porta alla decisione, ma non ho ricordato a seguito di quali rappresentazioni particolari nasca questa decisione e giunga all’intensità finale. Vi indicherò in breve, ora, questo problema così essenziale.

            Il fascino dell’oggetto stimola l’energia, ma questo problema si può rinviare. Quando, dunque, in questa condizione vi è chiara consapevolezza, da una parte di un’estrema necessità e inevitabilità, dall’altra dei mezzi a portata di mano, allora la decisione si realizza sicuramente. Eccovene un esempio. Un uomo pigro siede in una stanza e non si riuscirà a farlo uscire, ma basterà lasciare che veda che è scoppiato un incendio e acquisterà agilità. Salterà fuori di lì. Bisognerà fare proprio la stessa cosa con se stessi, se ci si trova nell’indecisione: bisogna sentire l’incombere di una sventura, cioè convincersi che o si farà così, o si perirà per sempre. Quando ci si immaginerà soltanto tutto questo nella coscienza, allora sorgerà con tutta la sua forza la nostra energia morale, che ci spingerà impetuosamente all’azione. Come fare questo in rapporto all’oggetto di cui stiamo parlando? Sforzatevi voi stessa di arrivarci. Da parte mia vi ricorderò che presto, magari domani, morirò e dopo la morte cosa sarà? Ricordate ciò che è accaduto al servo malvagio: “Prendetegli la mina, il dono della grazia, e gettatelo nelle tenebre esterne!”. Oppure ciò che accadde alle vergini stolte: la porta si chiuderà e si sentirà: “Non so chi tu sia!”. L’una o l’altra cosa ci accadrà alla fine, se non ravviveremo in noi stessi la grazia e non ne saremo illuminati. Ponetevi in questo atteggiamento con più consapevolezza. Non penso che la vostra indecisione, se esiste, si opporrà. Questa idea è molto efficace! Un saggio dell’antichità ha detto a questo proposito: “Ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato” (Sapienza di Sirac 7, 36). Sforzatevi di farvene un’idea sempre più chiara e, una volta che ne sarete consapevole, non indebolite né ottenebrate questa coscienza. Come sussidio prendete il libretto, “Sorgi, tu che dormi”; vi è già stato dato, leggetelo.

            Il secondo momento è il concorso dei mezzi: quando ci si sente in estrema necessità, esso ci dà il coraggio di sfuggire alla sventura spingendoci all’azione. Quando manca questo, la consapevolezza di trovarsi in una necessità inevitabile ed estrema si trasforma in disperazione. Nell’esempio sopra citato, se non vi fosse una porta libera o una finestra aperta, a colui che è imprigionato nel fuoco rimarrebbe soltanto di strapparsi i capelli. Così nel nostro caso, trovandoci in una condizione di estrema necessità (senza la grazia si resta privati del regno dei cieli), non avendo mezzi sotto mano, consapevoli di questa condizione, non ci rimarrebbe altro che cadere nella disperazione. Ringraziando il Signore, però, è già pronto per noi tutto ciò che è necessario per sfuggire all’inevitabile sventura nell’aldilà; tutto è pronto e lo abbiamo sotto mano, anzi è dentro noi stessi. Non resta che iniziare ad agire e operare. È possibile che, di fronte a tutto ciò, noi indugiamo ancora e rimandiamo di giorno in giorno?

            A vostro riguardo aggiungo che non vi toccherà fare niente di particolare. Vivete in quello spirito in cui siete stata educata e conservate i buoni costumi che vedete nella vostra famiglia e nei parenti. Vi parlo solo perché scegliate di tutto cuore proprio questo genere di vita e decidiate liberamente di vivere così fino alla fine. La vita che avete condotto fino ad ora è come se non fosse vostra. Così vi hanno indirizzato. Questo è un beneficio, ma ben fragile, se voi non sceglierete liberamente proprio questa vita e non la porrete come legge improrogabile per voi stessa. Se non lo farete ora, il cattivo spirito della vita mondana vi sedurrà, oppure non sarete né l’uno né l’altro, come vi ho già ricordato.

            Riflettete su tutto questo, per l’amor di Dio, e affrettatevi a fare le vostre scelte. Vi benedica il Signore!

 

 

Da TEOFANE IL RECLUSO, La vita spirituale. Lettere, Roma, 1996, 107-111.

lunedì 29 ottobre 2012

La tristezza di Nil Sorskij


La tristezza

 

del beato starec Nil Sorskij

 

 

            Non è ascesi da poco la lotta contro lo spirito di tristezza; esso infatti getta l’anima nella rovina e nella disperazione. Se l’afflizione viene dagli uomini, bisogna sopportarla di buon animo e pregare per chi ce la infligge, come si è detto, nella certezza che tutto quello che ci accade non avviene senza un disegno di Dio e che, in generale, tutto quello che Dio ci manda è per il bene e la salvezza della nostra anima. Se ciò che Dio ci manda sul momento non sembra giovarci, il seguito mostrerà chiaramente che quel che veramente ci giova non è ciò che noi stessi desideriamo, ma quello che Dio opera. Non dobbiamo dunque lasciarci sedurre da considerazioni umane, ma credere con fede grande che l’occhio del Signore vede tutto e che nulla può capitarci senza la sua volontà. Egli ci manda delle tentazioni a motivo della sua bontà, perché, dopo averle sopportate, riceviamo da lui la corona; per questo nelle tentazioni dobbiamo rendere grazie per ogni cosa a Dio, a lui nostro Benefattore e Salvatore. “Le labbra sempre riconoscenti, dice sant’Isacco, ricevono la benedizione di Dio e la grazia entra nel cuore che rende grazie” (Logos 73). Bisogna guardarsi dalla mormorazione nei confronti di chi ci ha fatto soffrire; lo stesso padre dice infatti che Dio sopporta tutte  le debolezze dell’uomo, ma non lascia senza castigo chi mormora sempre.

            Dobbiamo invece affliggerci di quella tristezza provocata dai nostri peccati, afflizione utile per condurci alla penitenza, unita però alla ferma speranza in Dio, nel profondo convincimento che non esistono peccati che possono prevalere sulla misericordia di Dio che tutto perdona a chi si pente e prega. Questo dolore è unito alla gioia, rende l’uomo pronto ad ogni opera buona e paziente in ogni sofferenza. La tristezza secondo Dio, ha detto l’Apostolo, produce un pentimento irrevocabile, imperioso, che porta alla salvezza (II Cor 7, 10). Il dolore opposto a questa tristezza è inviato dai demoni; bisogna assolutamente sradicarlo dal cuore, come le altre passioni cattive, respingerlo con la preghiera e la lettura, sopprimerlo con l’apertura del cuore e le conversazioni con uomini spirituali. La tristezza che non è secondo Dio (cfr. II Cor 7, 10), infatti, è radice di ogni male. Se rimane a lungo in noi, ben presto, dopo aver assunto la forma di mancanza di speranza, si trasforma in disperazione vera e propria e rende l’anima vuota e triste, priva di forza, impaziente, pigra nella preghiera e nella lettura.

 

 

            Da: Nil Sorskij. La vita e gli scritti, Torino, 1988, 80-81.

domenica 28 ottobre 2012

Dalle Omelie sulla lettera agli Efesini di san Giovanni Crisostomo



Dalle Omelie sulla lettera agli Efesini

di san Giovanni Crisostomo

 

 

L’ambizione mise sottosopra tutte le cose e riempì non soltanto il mondo, ma anche la Chiesa di innumerevoli tumulti. Allo stesso modo come dei venti impetuosi e violenti, irrompendo in un tranquillo porto, lo rendono più pericoloso di qualsiasi frana o tempesta; parimenti, una volta che ebbe fatto la sua irruzione il desiderio della gloria, esso sconvolse e confuse tutte le cose.

Certamente avrete assistito spesso all’incendio di grandi case. Avete veduto come il fumo sale verso il cielo, mentre nessuno si avvicina a estinguere il danno, ma il fuoco consuma indisturbato l’intera proprietà? Sovente tutta la città si mette lì attorno a contemplare la sciagura, senza che nessuno si adoperi a recare il minimo aiuto. Eccoli tutti là intorno: non fanno nulla, ma ognuno stende il suo braccio per mostrare a chi è appena arrivato una lampada che precipita da una finestra o le travi che si sfasciano oppure il muro di cinta, intatto, che si stacca dai sostegni e crolla al suolo. Vi sono, a ogni modo, anche molte persone audaci e pronte a gettarsi nel pericolo, le quali, tuttavia, se osano avvicinarsi agli edifici che ardono, non è per dare una mano a spegnere il fuoco, ma soltanto perché lo spettacolo sia più divertente lì donde essi possono vedere tutto ciò che rimane nascosto a chi è più distante. Orbene, anche se quella casa era grande e splendida, lo spettacolo che si para adesso dinanzi agli occhi è miserevole e degno di molte lacrime: i capitelli delle colonne ridotti in polvere, anche molte di queste distrutte, alcune a causa del fuoco, altre sovente a motivo dell’imperizia dei costruttori. Si possono altresì vedere, attraverso il tetto scoperchiato, gli affreschi che adornavano le pareti rimasti allo scoperto senza più alcuna bellezza. Chi potrebbe, poi, descrivere le ricchezze che si trovavano racchiuse lì dentro: vesti d’oro, vasi d’argento? Ebbene, laddove entrava soltanto il padrone di casa con sua moglie, dove si trovava il segreto ripostiglio di tanti vestiti e profumi e gemme, i bagnini, gli immondezzai e tutti gli altri servi in fuga vedono ogni cosa in un unico rogo. Tutto ciò che si trovava all’interno è diventato acqua e fuoco e fango e polvere e legna semibruciata.

Ma perché proseguire oltre con questa immagine? Intendo, infatti, non descrivere l’incendio di una casa (e che me ne importa?), ma raffigurare piuttosto dinanzi agli occhi vostri, per quanto possibile, i mali della Chiesa. La cupidigia, infatti, ha fatto la sua irruzione nella Chiesa come un fulmine che si abbatte dall’alto: entrando attraverso il tetto, non ha spaventato nessuno poiché, mentre la casa paterna brucia, noi dormiamo un sonno inerte e profondo. Che cosa non ha divorato, infatti, questo fuoco? Quali immagini che si trovano nella Chiesa non ha distrutto? La Chiesa, infatti, non è altro che la casa costruita per le anime nostre. Essa, d’altronde, non è tutta di pari dignità: delle pietre che la compongono, infatti, alcune sono splendide e lucide, altre più deteriori, ma a loro volta assai più pregiate di altre ancora. Molte di queste, poi, sono costituite addirittura dall’oro che è posto ad ornamento del tetto; altre hanno la funzione di decorare le pareti come gli affreschi delle case; molte, infine, assolvono il compito delle colonne. Infatti, gli uomini sono soliti chiamare «colonne» gli elementi che non soltanto con la loro potenza, ma anche con la bellezza producono un ricco ornamento con i loro capitelli dorati. Si può altresì vedere una folla che si estende lungamente e occupa un notevole spazio: questa moltitudine, infatti, tiene il posto delle pietre che costituiscono le mura dell’edificio.

È ormai tempo di giungere a un’immagine ancora più splendida. Questa Chiesa non è costituita da pietre qualsiasi, bensì d’oro e d’argento e di pietre preziose e dappertutto c’è oro a profusione. Ma che dolore, ahimè! La tirannia della vanagloria ha bruciato tutte queste cose, divorando tutto con la sua fiamma, senza che nessuno sia riuscito a domarla; e noi restiamo qui a contemplare l’incendio, ancora incapaci di rimediare al danno. Infatti, se anche per breve tempo lo estinguessimo, dopo due o tre giorni, dalla cenere si riaccenderebbe la scintilla e distruggerebbe nuovamente anche ciò che prima ha risparmiato. Accade anche qui come negli incendi. Il motivo di tutto ciò risiede nel fatto che hanno ceduto i sostegni delle colonne stesse della Chiesa, che reggevano il tetto, giungendo a circondare di fuoco tutto l’edificio che prima tenevano insieme. Per questo l’incendio si è facilmente trasmesso anche a tutte le altre pareti. Negli edifici, infatti, una volta infiammato il legno, il fuoco attacca con maggiore facilità le pietre; e quando poi la fiamma abbia attaccato le colonne e le abbia gettate a terra, allora non v’è neppure più bisogno del fuoco per compiere il resto. Quando, infatti, cedono gli elementi principali che sostengono e puntellano, tutti gli altri tengono dietro con la massima facilità. Così è avvenuto adesso nella Chiesa: il fuoco divora tutte le cose. Cerchiamo onori dagli uomini e siamo accesi dal desiderio della gloria...

Grande è stata la violenza di questo male: tutto è stato distrutto e annientato. Messo da parte Dio, siamo diventati servi della gloria umana; non possiamo più giudicare coloro che sottostanno a noi, dal momento che siamo noi stessi ad essere posseduti dalla medesima febbre: anche noi, dopo esser stati preposti da Dio a guarire gli altri, abbiamo bisogno della stessa medicina. Quale speranza di salvezza può mai persistere, dal momento che coloro stessi che hanno la funzione di medicare hanno bisogno dell’aiuto altrui? Non a sproposito ho detto tutto ciò, e non mi lamento senza motivo, ma affinché tutti assieme, con le mogli e i figli, cosparsoci il capo di cenere e rivestiti di sacco, ci applichiamo al digiuno, pregando Dio di aiutarci ad estinguere il male.

Abbiamo davvero bisogno dell’aiuto della sua mano grande e mirabile...

Facciamolo sia io che voi: distogliamoci dall’amore del denaro e della gloria, chiedendo a Dio di porgerci una mano e di raddrizzare le membra cadute. Non esitiamo a farlo: mentre prima, infatti, stavano per crollare pietre e legni ed erano i corpi a correre il pericolo di essere annientati, adesso invece nulla di tutto questo, ma sono piuttosto le anime ad esser trascinate verso la geenna del fuoco. Preghiamo dunque Dio, a lui confessiamo i delitti commessi.

 

sabato 27 ottobre 2012

Le lacrime di Adamo di san Silvano dell’Athos


Le lacrime di Adamo

 

di san Silvano dell’Athos

 

 

Adamo, padre dell’umanità, in paradiso conobbe la dolcezza dell’amore di Dio; così, dopo esser stato cacciato dal paradiso a causa del suo peccato e aver perso l’amore di Dio, soffriva amaramente e levava profondi gemiti. Il deserto intero riecheggiava dei suoi singhiozzi. La sua anima era tormentata da un unico pensiero: “Ho amareggiato il Dio che amo”. Non l’Eden, non la sua bellezza rimpiangeva, ma la perdita dell’amore di Dio che a ogni istante attrae insaziabilmente l’anima a Dio. Così ogni anima, che ha conosciuto Dio nello Spirito santo e ha poi smarrito la grazia, prova lo stesso dolore di Adamo. L’anima soffre e si tormenta per aver amareggiato il Signore che ama.

 

Adamo gemeva, sperduto su una terra che non gli procurava gioia; aveva nostalgia di Dio e gridava: “L’anima mia ha sete del Signore, in lacrime lo cerco. Come potrei non cercarlo? Quando ero con Dio, l’anima mia si rallegrava nella pace e l’avversario non poteva farmi alcun male. Ora invece lo spirito malvagio si è impadronito di me e tormenta l’anima mia. Ecco perché l’anima mia si strugge per il Signore fino a morire e non accetta conforto alcuno; il mio spirito anela a Dio e nulla di terreno lo consola; ho desiderio ardente di rivedere Dio (cf. Sal 42, 2 ss.), di goderlo fino a saziarmene. Nemmeno per un attimo posso dimenticarmi di lui, l’anima mia langue per lui, gemo dal grande dolore. Abbi pietà di me, o Dio, pietà della tua creatura caduta”.

Così gemeva Adamo, e un fiume di lacrime gli solcava il volto, scorreva sul petto e cadeva a terra. Il deserto intero riecheggiava dei suoi singhiozzi. Bestie e uccelli erano ammutoliti di dolore. E Adamo gemeva: per il suo peccato tutti avevano perduto la pace e l’amore.

Grande fu il dolore di Adamo dopo la cacciata dal paradiso, ma più grande ancora quando vide il figlio Abele ucciso da Caino. Per l’immane sofferenza piangeva, pensando: “Allora da me usciranno popoli, si moltiplicheranno sulla terra, ma solo per soffrire tutti, per vivere nell’inimicizia e uccidersi a vicenda”.

Come oceano immenso era il suo dolore: solo le anime che hanno conosciuto il Signore e il suo ineffabile amore possono capirlo. Io pure ho perso la grazia, e con Adamo imploro: “Abbi pietà di me, Signore. Donami lo spirito di umiltà e di amore”.

Come è grande l’amore del Signore! Chi ti ha conosciuto non si stanca di cercarti, e giorno e notte grida: “Desidero te, Signore, in lacrime ti cerco. Come potrei non cercarti? Sei tu che mi hai permesso di conoscerti nello Spirito santo e ora questa divina conoscenza attira incessantemente la mia anima a te”.

Adamo piangeva: “Il silenzio del deserto, non mi rallegra. La bellezza di boschi e prati, non mi dà riposo. Il canto degli uccelli, non lenisce il mio dolore. Nulla, più nulla mi dà gioia. L’anima mia è affranta da un dolore troppo grande. Ho offeso Dio, il mio amato. E se ancora il Signore mi accogliesse in paradiso, anche là piangerei e soffrirei. Perché ho amareggiato il Dio che amo”.

Adamo, cacciato dal paradiso, sentiva sgorgare dal cuore trafitto fiumi di lacrime. Così piange ogni anima che ha conosciuto Dio e gli dice: “Dove sei, Signore? Dove sei, mia luce? Dove si è nascosta la bellezza del tuo volto? Da troppo tempo l’anima mia non vede la tua luce, afflitta ti cerca. Nell’anima mia non lo vedo. Perché? In me non dimora. Cosa glielo impedisce? In me non c’è l’umiltà di Cristo né l’amore per i nemici”.

Sconfinato, indescrivibile amore: questo è Dio.

Adamo andava errando sulla terra: nel cuore lacrime amare, la mente continuamente in Dio. E quando il corpo esausto non aveva più lacrime da piangere, era lo spirito ad ardere per Dio, non potendo dimenticare il paradiso e la sua bellezza. Ma l’anima di Adamo amava Dio più di ogni altra cosa e, forte di questo amore, a lui incessantemente anelava.

Adamo, di te io scrivo; ma tu vedi che troppo debole è la mia mente per capire l’ardore del tuo desiderio di Dio e il peso della tua penitenza. Adamo, tu vedi quanto io, tuo figlio, soffro sulla terra. In me non c’è più fuoco ormai, la fiamma del mio amore si sta spegnendo. Adamo, canta per noi il cantico del Signore: l’anima mia esulti di gioia nel Signore (cf. Lc 1, 47), si levi a cantarlo e glorificarlo, come nei cieli lo lodano i cherubini, i serafini e tutte le potenze celesti. Adamo, nostro padre, canta per noi il cantico del Signore: tutta la terra lo senta, tutti i tuoi figli levino i loro cuori a Dio, gioiscano al dolce suono dell’inno del cielo, dimentichino le sofferenze della terra. Adamo, nostro padre, narra il Signore a noi, tuoi figli! L’anima tua conosceva Dio, conosceva la dolcezza e la gioia del paradiso. E ora tu dimori nei cieli e contempli la gloria del Signore.

Narraci come il Signore nostro è glorificato per la sua passione, come vengono cantati i cantici in cielo, come sono dolci gli inni proclamati nello Spirito santo. Narraci la gloria di Dio, quanto è misericordioso, quanto ama la sua creatura. Narraci della santa Madre di Dio, quanto è esaltata nei cieli, quali inni la proclamano beata. Narraci come gioiscono i santi lassù, come risplendono di grazia, come amano il Signore, con quale santa umiltà stanno davanti al suo trono.

Adamo, consola e rallegra le nostre anime affrante. Narraci: cosa vedi nei cieli? Non rispondi? Perché questo silenzio? Eppure, la terra intera è avvolta di sofferenza. Tanto ti assorbe l’amore divino da non poterti ricordare di noi?

Oppure vedi la Madre di Dio nella gloria e non puoi distogliere gli occhi da quella celeste visione e per questo lasci i tuoi figli nella desolazione, orfani di una parola di affetto? È per questo che non ci consoli e non ci permetti di scordare le amarezze della nostra vita terrena? Adamo, nostro padre, non rispondi? Il dolore dei tuoi figli sulla terra tu lo vedi. Perché dunque questo silenzio? Perché?

Adamo risponde: “Figli miei, amati, non turbate la mia pace. Non posso distogliermi dalla visione di Dio. L’anima mia, ferita dall’amore del Signore, si delizia della sua bontà. Chi vive nella luce del volto del Signore non può ricordarsi delle cose terrene”.

Adamo, nostro padre, hai forse abbandonato noi, tuoi figli ormai orfani? Ci hai lasciati immersi nell’abisso dei mali della terra? Narraci: come piacere a Dio? Ascolta i tuoi figli dispersi sulla terra: il loro spirito si disperde nei pensieri del loro cuore (cf. Lc 1, 51) e non può accogliere la divinità. Molti si sono allontanati da Dio, vivono nelle tenebre e camminano verso gli abissi dell’inferno.

“Non turbate la mia estasi. Contemplo la Madre di Dio nella gloria e non posso distrarre la mente da questa visione per parlare con voi. Contemplo anche i santi profeti e apostoli e sono pervaso di stupore perché li vedo in tutto simili al Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Cammino nell’Eden e ovunque contemplo la gloria del Signore: egli vive in me e mi ha reso simile a lui. A tal punto il Signore glorifica l’uomo!”.

Adamo, parla con noi! Siamo tuoi figli e qui sulla terra soffriamo. Narraci come ereditare il paradiso, affinché noi pure, come te, possiamo contemplare la gloria del Signore. Le anime nostre soffrono per la lontananza dal Signore, mentre tu nei cieli ti rallegri ed esulti nella gloria divina. Ti supplichiamo: consolaci!

“Figli miei, perché gridate a me? Il Signore vi ama e vi ha dato i comandamenti della salvezza. Osservateli, soprattutto amatevi gli uni gli altri (cf. Gv 13, 34): così troverete riposo in Dio. In ogni istante pentitevi dei vostri peccati: così sarete ritenuti degni di andarvene incontro a Cristo. Il Signore ha detto: ‘Amo quelli che mi amano’ (cf. Gv 14, 21) e ‘glorificherò quelli che mi glorificano’ (1Sam 2,30)”.

Adamo, prega per noi, tuoi figli! L’anima nostra è oppressa da molti mali. Adamo, nostro padre, nei cieli tu contempli il Signore che è seduto nella gloria alla destra del Padre; vedi i cherubini, i serafini e i santi tutti; ascolti canti celesti e l’anima tua è rapita da tanta dolcezza. Ma noi, quaggiù, esclusi dalla grazia, siamo costantemente afflitti e abbiamo sete di Dio. Si estingue in noi il fuoco dell’amore del Signore, siamo oppressi dal peso delle nostre colpe. Una tua parola ci sia di conforto; canta a noi un canto che ascolti nei cieli: lo senta la terra intera e gli uomini tutti dimentichino le loro miserie. Adamo, la tristezza ci opprime!

“Figli miei, non turbate la mia pace. Passato è il tempo delle mie sofferenze. Nella dolcezza dello Spirito santo e nelle delizie del paradiso, come ricordarmi della terra? Questo solo vi dirò: Il Signore vi ama: vivete nell’amore! ‘Obbedite ai vostri superiori’ (Eb 13, 17), umiliate i vostri cuori.

Lo Spirito di Dio allora porrà la sua tenda in voi (cf . Gv 1, 14). Viene nella quiete e all’anima dona pace; muto (cf. Sal 19,4), testimonia la sua salvezza. Cantate a Dio con amore e umiltà di spirito: di questo si rallegra il Signore”.

Adamo, nostro padre, che fare? Cantare, cantiamo. Ma in noi né amore né umiltà.

“Pentitevi davanti al Signore, e pregate. Concederà ogni cosa agli uomini che tanto ama (cf. Gv 3, 16). Anch’io mi sono pentito e ho sofferto per aver amareggiato il Signore, perché per i miei peccati la pace e la gioia erano state tolte dalla faccia della terra. Un fiume di lacrime solcava il mio volto, mi scorreva sul petto e cadeva a terra; il deserto intero riecheggiava dei miei singhiozzi. Non potete penetrare l’abisso della mia afflizione, né il mio pianto a causa di Dio e del paradiso. In paradiso ero felice: lo Spirito di Dio mi colmava di gioia, mi preservava libero da sofferenze.

            Ma, cacciato dal paradiso, fiere e uccelli, che prima mi amavano, presero a temermi e a fuggire lontano; pensieri malvagi mi laceravano il cuore; freddo e fame mi tormentavano; il sole mi bruciava, il vento mi sferzava, la pioggia mi inzuppava: ero sfinito dalle malattie e da tutte le disgrazie della terra. Ma tutto sopportavo, sperando in Dio contro ogni speranza (cf. Rm 4, 18).

Figli miei, sopportate anche voi le fatiche della penitenza; amate le afflizioni; sottomettete il corpo con l’ascesi e la sobrietà; umiliatevi e amate i nemici (cf. Mt 5,44): lo Spirito santo dimorerà in voi. Allora conoscerete e troverete il regno di Dio. Ma non turbate la mia pace. Per l’amore di Dio non posso ricordarmi della terra. Ho dimenticato tutte le cose terrene, persino lo stesso paradiso da me perduto, perché contemplo la gloria eterna del Signore e la gloria dei santi che risplendono della stessa luce del volto di Dio”.

Adamo, canta per noi, cantaci il canto celeste: la terra intera lo ascolti e goda della pace di Dio. Sono inni soavi, cantati nello Spirito santo e noi desideriamo ascoltarli. Adamo aveva perduto il paradiso terrestre. In lacrime lo cercava: “Paradiso mio, paradiso mio, paradiso meraviglioso!”. Ma il Signore nel suo amore gli fece dono, sulla croce (cf. Lc 23, 43), di un paradiso migliore di quello perduto, un paradiso celeste dove rifulge la luce increata della santa Trinità. Come contraccambiare l’amore del Signore per noi? (cf. Sal 116,12).

 

 

venerdì 26 ottobre 2012

Dall’Omelia sulla Preghiera di San Giovanni Crisostomo



Dall’Omelia sulla Preghiera

di San Giovanni Crisostomo

 

 

La preghiera, o dialogo con Dio, è un bene sommo. È, infatti una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la luce ne sono rischiarati, così anche l’anima che è tesa verso Dio viene illuminata dalla luce ineffabile della preghiera. Deve essere, però, una preghiera non fatta per abitudine, ma che proceda dal cuore. Non deve essere circoscritta a determinati tempi ed ore, ma fiorire continuamente, notte e giorno.

Non bisogna infatti innalzare il nostro animo a Dio solamente quando attendiamo con tutto lo spirito alla preghiera. Occorre che, anche quando siamo occupati in altre faccende, sia nella cura verso i poveri, sia nelle altre attività, impreziosite magari dalla generosità verso il prossimo, abbiamo il desiderio e il ricordo di Dio, perché, insaporito dall’amore divino, come da sale, tutto diventi cibo gustosissimo al Signore dell’universo. Possiamo godere continuamente di questo vantaggio, anzi per tutta la vita, se a questo tipo di preghiera dedichiamo il più possibile del nostro tempo.

La preghiera è luce dell’anima, vera conoscenza di Dio, mediatrice tra Dio e l’uomo. L’anima, elevata per mezzo suo in alto fino al cielo, abbraccia il Signore con amplessi ineffabili. Come il bambino, che piangendo grida alla madre, l’anima cerca ardentemente il latte divino, brama che i propri desideri vengano esauditi e riceve doni superiori ad ogni essere visibile.

La preghiera funge da augusta messaggera davanti a Dio, e nel medesimo tempo rende felice l’anima perché appaga le sue aspirazioni. Parlo, però, della preghiera autentica e non delle sole parole.

Essa è un desiderare Dio, un amore ineffabile che non proviene dagli uomini, ma è prodotto dalla grazia divina. Di essa l’Apostolo dice: “Non sappiamo pregare come si conviene, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili” ( Rm 8, 26). Se il Signore dà a qualcuno tale modo di pregare, è una ricchezza da valorizzare, è un cibo celeste che sazia l’anima; chi lo ha gustato si accende di desiderio celeste per il Signore, come di un fuoco ardentissimo che infiamma la sua anima.

Abbellisci la tua casa di modestia e umiltà mediante la pratica della preghiera. Rendi splendida la tua abitazione con la luce della giustizia; orna le sue pareti con le opere buone come di una patina d’oro puro e al posto dei muri e delle pietre preziose colloca la fede e la soprannaturale magnanimità, ponendo ogni cosa, in alto sul fastigio, la preghiera a decoro di tutto il complesso. Così prepari per il Signore una degna dimora, così lo accogli in splendida reggia. Egli ti concederà di trasformare la tua anima in tempio della sua presenza.