mercoledì 29 maggio 2013

San Brendano di Clonfert

 

San Brendano il viaggiatore, abate di Clonfert

16 (29) Maggio

 

Tropario, Tono 4

In te, o santo padre Brendano, la somiglianza con Dio è stata perfezionata, prendendo la croce hai seguito Cristo, e con le tue opere ci hai insegnato a sottomettere la carne che muore, e a coltivare l’anima immortale: perciò, o santo padre, il tuo spirito esulta con gli angeli.

 
 

BRANDANO

di Raymond Lantier

 

 

BRANDANO, San. - Irlandese, nato verso il 484 a Tralee (Kerry). Fondò numerosi conventi in Irlanda, tra cui quello di Clonfert, ove divenne abate e morì verso il 578. È soprattutto celebre per il racconto - popolarissimo nel Medioevo - del suo viaggio settennale alla ricerca del Paradiso. Lo possediamo in una redazione latina, Navigatio sancti Brandani, verosimilmente della fine del sec. XI, e in numerose versioni, tanto nelle quattro lingue celtiche, quanto in francese, inglese, sassone, fiammingo, italiano.
 




La leggenda di S. Brandano si ricollega a tutta una serie di viaggi mitici verso i paesi d’oltremare: tema favorito nella letteratura celtica dei primi secoli dell’era cristiana. Alcuni episodî della navigazione di S. Brandano si ritrovano nel viaggio di Bran figlio di Febal, e nella saga di Maelduin. Ma ci possiamo chiedere se questa leggenda non contenga anche vestigia di tradizioni relative a spedizioni marittime irlandesi e a stabilimenti in Islanda e in America, ai quali sembrano alludere le saghe islandesi. La leggenda di Brandano, poi, si è diffusa ben presto anche fuori dei paesi celti; e sembra l’abbiano conosciuta anche gli Arabi, che ne hanno introdotto qualche episodio nella storia di Sindbad il marinaio. L’isola di S. Brandano è stata indicata sulle principali carte medievali fino ad epoca relativamente recente, per es. sopra una carta veneziana del 1367, su quella anonima di Weimar del 1424; in quella di Beccario (1435) è confusa con Madera, e Martino Behaim (1492) la pone ad ovest delle Canarie. Nel trattato con cui la Corona di Portogallo cede ai Castigliani i suoi diritti sulle Canarie, è detta "l’isola non ancora scoperta". Dal 1526 al 1721 non meno di quattro spedizioni salparono dalle Canarie alla ricerca dell’isola di S. Brandano.

 
 
 

Bibl.: A. Jubinal, La légende latine de Saint-Brandan, Parigi 1836; Zimmer, Keltische Beiträge, II, Brandans Meerfahrt, Berlino 1889; P. F. Moran, Acta Sancti Brandani, Dublino 1872; O’ Donoghue, Brandaniana, Dublino 1893; A. D’Ancona, Scritti danteschi, Firenze 1913, pp. 45-46; C. Wahlund, Eine altfranzösische prosaübersetzung von Brandans Meerfahrt, in Festgabe W. Förster, Halle 1901, p. 129 segg.; id., in Skrifter utgifna af K. Humanistika Vetenskaps-Samfundet i Uppsala, IV, 3 (1902); F. Novati, La Navigatio S. Brandani in antico veneziano, Bergamo 1893, 2ª ed. 1896; J. K. Wright, The geographical Lore of the Time of the Crusades, New York 1925.

 


 
 


 

martedì 28 maggio 2013

LA FESTA DI MEZZO PENTECOSTE

 

LA FESTA DI MEZZO PENTECOSTE (MESOPENTIKOSTI)

 

 

Pochi sono coloro che si recano in Chiesa in tale giorno e la maggior parte addirittura non sa neanche che il Mercoledì dopo la Domenica del Paralitico, la Chiesa celebra una grande festa, la Mezza Pentecoste. Ma una volta la festa di Mesopentikostis (questo il suo nome greco) era una grande festa della Grande Chiesa di Costantinopoli e una folla immensa vi si radunava. Una prima notizia di questa festa la troviamo in una relazione del Regno d’ordine (Cap. 26) di Costantino Porfyrogenito che ci dice che tale festa veniva celebrata fin dall’anno 903 nella chiesa di San Mokiou a Costantinopoli. Vi è una descrizione dettagliata della gloriosa celebrazione, che occupa tutta la pagina ed è determinata dalla nota taxis bizantina, come l’imperatore di mattina prendeva parte alle celebrazioni ufficiali recandosi dal suo palazzo nella chiesa San Mokiou, dove si celebrava tale funzione presieduta dal Patriarca. Era usanza che l’imperatore alla fine delle celebrazioni invitasse a pranzo il Patriarca. E nei nostri odierni libri liturgici vediamo presenti le tracce del vecchio splendore di cui godeva questa festa. Infatti la festa viene presentata come despotica, con i suoi tropari e con il suo doppio canone al mattutino, opere dei grandi innografi Teofane ed Andrea di Creta, con letture proprie, con la sua permanenza tra due domeniche e soprattutto con la sua ottava diremo oggi come le altre grandi feste despotiche dell’anno liturgico.

Ma quale è il tema di questa festa particolare? Non ingloba possiamo dire una realtà storicizzata dal racconto evangelico. La questione è chiaramente festiva e teorica. Il Mercoledì della Mezza Pentecoste, cade 25 giorni dopo la Pasqua e 25 giorni prima della festa di Pentecoste. Segna la metà del periodo dei 50 giorni festivi dopo la Pasqua. È cioè una sosta, una fermata. Questo lo indica molto bene il primo stichiron del vespro della festa: Eccoci giunti alla metà dei giorni che iniziano con la salvifica resurrezione e ricevono il loro sigillo con la divina pentecoste. Questo giorno risplende dai fulgori che riceve da entrambe, congiunge le due feste, ed è venerabile perché annuncia la gloria dell’ascensione del Signore. Senza avere quindi un proprio tema questo giorno unisce i temi, della Pasqua da una parte e della Discesa dello Spirito Santo dall’altra, e anticipa potremmo dire, la gloria dell’Ascensione del Signore, che si festeggerà fra 15 giorni esatti. Certamente questo stare in mezzo alle due grandi feste, ci porta alla mente anche l’aggettivo particolare del Signore in lingua ebraica e cioè Messia. Messia in greco la maggior parte delle volte è tradotto con Cristo. Ma foneticamente la parola ebraica ci riporta lo stare in mezzo in greco. Così sia nei tropari che nel sinassario del giorno, questa etimologia di cui parlavamo sopra diventa motivo di presentare Cristo, come Messia, Mediatore tra Dio e l’uomo, mediatore e riconciliatore del mondo con l’eterno Padre. Per questo motivo, osserva lo Xanthopulos nel suo Sinassario, festeggiamo la Mezzapentecoste, inneggiando il Cristo quale Messia. Anche la lettura della pericope evangelica del giorno rinforza questo pensiero di cui sopra (Gv 7, 14-30). Nel mezzo della festa della Pasqua giudaica Cristo sale al tempio ed insegna. Il suo insegnamento provoca ammirazione, ma anche fa nascere una controversia tra lui e le persone ed i maestri del tempio. È il messia Gesù o non lo è? L’insegnamento di Gesù proviene da Dio o no? Sorge quindi una nuova questione: il Cristo è maestro. Colui che non ha mai frequentato una scuola diremmo oggi, ha la pienezza della saggezza, perché è la Sapienza-Sofia di Dio che ha creato il mondo. Proprio questo dialogo ha ispirato gran parte dell’innografia di questa festa. Colui che insegna al tempio, nel mezzo dei maestri del popolo giudaico, nel mezzo della festa, è il Messia, è il Cristo, il Verbo di Dio. Colui che viene contraddetto dai presunti saggi del suo popolo, è la Sapienza di Dio. Prendiamo ad esempio uno dei tropari più caratteristici, il doxastikon degli aposticha del Vespro: A metà della festa, mentre tu insegnavi, o Salvatore, dicevano i giudei: Come può costui conoscere le Scritture senza aver studiato? Ignoravano che tu sei la Sapienza che ha ordinato il mondo. Gloria a Te!

Poche righe più in basso nell’Evangelo di Giovanni, subito dopo la pericope che contiene il dialogo del Signore con i Giudei nel mezzo della festa, segue un simile dialogo, che ebbe luogo tra Cristo ed i Giudei, l’ultimo giorno della grande festa, cioè a Pentecoste. Questo inizia con una grande frase del Signore Se qualcuno ha sete venga a me e beva, chi crede in me come dice la Scrittura, dal suo grembo scorreranno fiumi d’acqua viva ( Gv 7, 37-38). E continua l’evangelista questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui ( Gv 7, 39). Non ha importanza che queste parole il Signore non le ha proferite durante la Mezzopentecoste ma alcuni giorni dopo. Grazie ad una figura poetica sono state messe in bocca al Signore nel discorso di Mezzopentecoste. D’altronde l’attinenza con il discorso della festa è molto evidente. Non potrebbe trovarsi caratteristica maggiore dell’immagine dell’opera di insegnamento di Cristo. Nell’assetato genere umano l’insegnamento di Cristo viene come acqua viva, come fiume di grazia che ristora la faccia della terra. Cristo è la fonte della grazia, dell’acqua della vita eterna, che ristora e disseta le anime provate degli uomini, che cambia gli assetati in fonti, da cui scorreranno fiumi di acqua viva. Anzi, diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna (Gv 4, 14) disse alla Samaritana. Egli che ha cambiato il deserto del mondo in un paradiso piantato da Dio di alberi sempreverdi irrorati dalle acque dello Spirito Santo. Questo tema ha ispirato anche la poesia ecclesiastica ed ha ornato la festa odierna con inni ineguagliabili. Ne scegliamo uno, tra i più caratteristici, il kathisma dopo la terza ode del Mattutino: Stando nel mezzo del tempio, a metà della festa con voce ispirata gridavi: Chi ha sete venga a me e beva, perché chi beve alla mia divina sorgente farà sgorgare dal suo seno i fiumi delle mie dottrine. Chi crede in me, inviato dal divino Genitore, con me sarà glorificato. Per questo a te acclamiamo: Gloria a Te, o Cristo Dio, perché hai copiosamente riversato sui tuoi servi i flutti del tuo amore per gli uomini. Questa in sintesi è la festa di Mezzopentecoste

 

Dalla rivista della Metropoli di Kesariani,
liberamente tradotto dal greco dal diacono Rosario S.

 

Mercoledì della 4ª settimana di Pasqua: Metà Pentecoste

 
Icona di Mezza Pentecoste, Mosca XV sec.




Mercoledì della 4ª settimana di Pasqua: Metà Pentecoste (Преполовение)

  

Il mercoledì della IV settimana di Pasqua segna la metà del pentakostarion, il periodo che dalla Pasqua giunge alla Pentecoste. Viene detto perciò mercoledì di mesopentikostis. Gli inni ricordano tale collocazione, il tema della festa è invece specificatamente quella di Gesù Maestro.

Nonostante non sia una delle Grandi Feste ha preortìa e meteortìa ed apodosis l’ottavo giorno.

L’icona della festa stranamente non richiama l’Evangelo del giorno (Gv 7, 14-30), ma mostra il Fanciullo dodicenne che, dopo essere salito con i genitori a Gerusalemme, vi si trattiene nel tempio a discutere con i dottori della Legge.

Il Divino Fanciullo è posto al centro dell’icona, assiso tra un semicerchio di anziani che ascoltano la sua parola.

La figura di dimensioni maggiore e lo scranno più elevato, con uno sgabello per i piedi, mostrano la sua qualità di maestro.

Gli edifici sullo sfondo simboleggiano naturalmente il tempio in cui ha luogo la scena.

 

 

Tropario, tono 8

A metà della festa pasquale, disseta, o Salvatore, l’anima mia assetata con l’acqua della pietà, poiché Tu stesso hai detto a tutti: Chi ha sete venga a me, e beva. Tu sei la fonte della vita, o Cristo Dio, sia gloria a Te.

 

Kontakion, tono 4

O creatore e signore di tutte le cose, o Cristo Dio, a metà della festività legale, dicevi a quelli che ti stavano attorno: Venite a me ed attingete le acque dell’immortalità. Per cui noi ci prostriamo davanti a Te e con fede gridiamo: Donaci la misericordia, Tu infatti sei la sorgente della nostra vita.

 

 

Apostolo: Atti degli apostoli 14, 6-18.

In quei giorni gli apostoli si rifugiarono nelle città della Licaònia, a Listra e Dervi e nei dintorni, e là evangelizzavano. C’era a Listra un uomo incapace di stare in piedi, zoppo sin dal ventre di sua madre, che non aveva mai camminato. Egli udì Paolo parlare e questi, guardandolo fisso e vedendo che aveva fede di esser salvato, disse a gran voce: “Alzati diritto in piedi!” Egli saltò e camminava. La folla allora, al vedere ciò che Paolo aveva fatto, si mise a gridare in dialetto licaonio e disse: “Gli dei, fatti simili agli uomini, sono scesi da noi!”. E Barnaba lo chiamavano Zeus e Paolo Ermes, perché era lui a portare la parola. Intanto il sacerdote di Zeuss che è all’ingresso della città, recando alle porte tori e ghirlande, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. Sentendo ciò, gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando: “Uomini, perché fate questo? Anche noi siamo esseri umani, deboli come voi, e vi evangelizziamo di tornare da queste cose inutili al Dio vivente che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano. Egli, nelle generazioni passate, ha permesso a ogni popolo di seguire il proprio cammino; ma non ha cessato di dar testimonianza di sé beneficando, dandovi dal cielo piogge e stagioni fruttifere, riempiendo di cibo e di letizia i vostri cuori”. E così dicendo, riuscirono a fatica a far desistere la folla dall’offrire loro un sacrificio.

 

Evangelo: secondo Giovanni 7, 14-30.

A metà della festa Gesù salì al tempio e insegnava. I Giudei ne erano stupiti e dicevano: “Come mai costui conosce le lettere, senza essere stato a scuola?”. Gesù rispose e disse loro: “La mia dottrina non è mia, ma di chi mi ha inviato. Chi vuol fare la sua volontà, conoscerà di questa dottrina se viene da Dio, o se io parlo da me stesso. Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di chi lo ha inviato è veritiero, e in lui non c’è ingiustizia. Non è stato forse Mosè a darvi la Legge? Eppure nessuno di voi osserva la Legge. Perché cercate di uccidermi?”. Rispose la folla: “Tu hai un demonio! Chi cerca di ucciderti?”. Rispose Gesù e disse loro: “Un’opera sola ho compiuto, e tutti ne siete stupiti. Mosè vi ha dato la circoncisione - non che venga da Mosè, ma dai padri - e voi circoncidete un uomo anche di sabato. Ora se un uomo riceve la circoncisione di sabato perché non sia trasgredita la Legge di Mosè, voi vi sdegnate contro di me perché ho guarito tutto intero un uomo di sabato? Non giudicate secondo apparenza, ma giudicate con giusto giudizio!”. Intanto alcuni di Gerusalemme dicevano: “Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, e non gli dicono niente. Che forse i capi abbiano riconosciuto che egli è il vero Cristo? Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove è”. Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, disse gridando: “Anche me conoscete e sapete di dove sono! Io non sono venuto da me e chi mi ha inviato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché da lui Io Sono ed egli mi ha inviato”. Allora cercavano di prenderlo, ma nessuno gli mise mano addosso, perché non era ancora giunta la sua ora.

 

 

Per la tua edificazione puoi leggere anche:

La festa di Mezza-Pentecoste del vescovo Alexandre de Zilon

lunedì 27 maggio 2013

Malattia e guarigione nell'arte paleocristiana

 
Fronte di sarcofaco presso il museo Lateranense




Malattia e guarigione nell’arte paleocristiana

Quel mantello «alla cinica» che copre il terapeuta


 

di Fabrizio Bisconti

L’immaginario iconografico paleocristiano accoglie molto presto gli episodi evangelici legati alla malattia e ai relativi miracoli, che vedono il Cristo come terapeuta e guaritore, tanto è vero che, in molti casi, il Salvatore assume le caratteristiche fisionomiche di Asklèpios e veste il pallio dei sapienti, ovvero il cosiddetto mantello "alla cinica", come succede in un singolare sarcofago romano ora conservato al museo di Palazzo Massimo riferibile all’età tetrarchica, ossia al grave momento della persecuzione dioclezianea. È sintomatico che, in questo rilievo, il Cristo guaritore compaia contemporaneamente come protagonista del sermone della montagna (Luca, 6, 20, Marco, 5, 1-3) e come guaritore della mulier inclinata, del cieco nato, del lebbroso, del paralitico, dell’ossesso, quasi per indicare che è proprio dal Lògos e dalle sue parole che si muovono le vie della salvezza del corpo e dell’anima, in perfetta coerenza con quanto evidenziano i Padri della Chiesa: da Tertulliano (Adversus Marcionem, 4, 14) a Clemente Alessandrino (Stromata, 5, 70, 1). Ma la traduzione figurata dei miracoli di guarigione si affaccia ancora prima all’orizzonte figurativo paleocristiano, sin dagli esordi del III secolo, quando, simultaneamente, nel battistero di Dura Europos, in Siria, e in uno dei cubicoli della più antica area del complesso romano di San Callisto, compare l’immagine del paralitico già guarito, mentre solleva il suo lettuccio da infermo sulle spalle.


 
 


Dura Europos, il paralitico
 
 
Come è noto, i sinottici rievocano un miracolo occorso a un paralitico a Cafarnao (Matteo, 9, 1-8, Marco, 2, 3-12, Luca, 5, 18-26), mentre Giovanni ricorda un prodigioso risanamento di uno storpio presso la piscina probatica di Gerusalemme (Giovanni, 5, 1-15).

Lo schema iconografico molto semplice, che - come si è detto - comporta la figura del malato che risponde all’ordine perentorio del Cristo di alzarsi e camminare, rende bene l’idea dell’urgenza e dell’eccezionalità dell’evento, talora arricchito dal sacro gesto dell’impositio manuum del Salvatore, che vuole significare la potenza taumaturgica del Lògos. Il miracolo, che si verifica presso la piscina di Bethesda, rappresentato molto spesso, specialmente nei sarcofagi romani di età teodosiana, sottolinea il collegamento naturale che l’idea della guarigione intrattiene con il concetto di purificazione.
 
 
 
Catacombe di San Callisto, Mosè apre le acque, battesimo del Signore e il paralitico
 
 
Presso la piscina, situata ai piedi della collina che si alzava nei pressi del Tempio, si affollavano, infatti, molti infermi, che si precipitavano nelle acque non appena un angelo ne sollevava il livello, con la speranza di essere i primi a immergersi per essere risanati. Il miracolo del paralitico - per questo motivo - è stato spesso interpretato in chiave battesimale, come sottolinea efficacemente Tertulliano (De baptismo, 5), quando ricorda che il bagno nell’acqua lustrale monda i fedeli dal peccato, restituendo l’integrità fisica e spirituale.

La stessa associazione semantica sostiene la fortuna iconografica degli episodi relativi alle guarigioni dei non vedenti. Oltre al risanamento di ciechi in massa (Luca, 7, 21, Matteo, 15, 30-31 e 21, 14), il Nuovo Testamento ricorda altri miracoli relativi ai non vedenti guariti dal Cristo, che possono essere ricondotti a uno verificatosi a Cafarnao, che interessò una coppia di ciechi (Matteo, 9, 28-31); a un altro accaduto in una via di Gerico, ancora in favore di una coppia di non vedenti (Matteo, 20-29-34); a quello celebre relativo al mendicante Bartimeo (Marco, 10, 46-52); a uno ancora ambientato a Bethesda (Marco, 8, 22-26) e a quello, sopra ricordato, della piscina di Siloe. Specialmente in riferimento a quest’ultimo miracolo rievocato da Giovanni, i Padri della Chiesa sottolineano, appunto, il simbolismo battesimale, per la chiara allusione al sacramento dell’illuminazione, come afferma esplicitamente ancora Tertulliano (De baptismo, 5, 5).

 
 
Frammento di sarcofaco nel museo di Arles


Altri si soffermano sull’assimilazione cieco nato-uomo peccatore dalla nascita e cieco illuminato-uomo risanato dalla grazia del Battesimo e anzi, per Ireneo (Adversus haereses, 5, 15, 13), il lavaggio della piscina di Siloe si riferisce sicuramente al lavacro battesimale e il momento precedente è da identificarsi con il catecumenato, mentre per Ambrogio (Epistulae, 80) l’uomo, che aveva un cuore cieco, dopo Siloe, ha aperto gli occhi.

Questo logico e naturale passaggio simbolico nutrì una fortuna assai considerevole della guarigione del cieco nell’arte cristiana più antica, che rappresenta l’infermo nel momento del miracolo con le braccia sollevate nel gesto orante del ringraziamento, mentre il Cristo impone solennemente le mani sul suo capo a sui suoi occhi. Piuttosto fortunato risulta, nella produzione figurativa paleocristiana, anche il miracolo della guarigione operata dal Cristo nei confronti di un’emorroissa (Matteo, 9, 20-22, Marco, 5, 25-29, Luca, 8, 43-48), che assurge, anzi, ad emblema paradigmatico della fede nella potenza divina e taumaturgica del Cristo. L’arte, sin dalle prime manifestazioni, fissa il momento in cui la donna inginocchiata sfiora il pallio del Salvatore che, talora, si volge verso di lei per interpellarla.

Lo schema iconografico, assai sintetico ed estremamente simile a quello relativo alla guarigione della figlia della cananea (Matteo, 15, 21-28, Marco, 7, 24-30), rende molto bene il forte concetto del peccato annullato dal perdono, per il tramite del pentimento, alludendo, in senso più lato, alla Chiesa, che mette a nudo le sue piaghe e chiede di essere guarita, come specifica chiaramente Ambrogio (De poenitentia, 1, 7, 31).

 

Sarcofago nel museo di Algeri
 


Più rara risulta la traduzione figurata della guarigione della donna curva (Luca, 13, 10-13), che, però, trova un’interessante manifestazione in un affresco del cimitero dei santi Pietro e Marcellino, dove la scena compare insieme a quella dell’emorroissa e della samaritana al pozzo, quasi per declinare al femminile tutto il programma decorativo di un arcosolio, dove, probabilmente, era sepolta una defunta.

Tutte queste rappresentazioni miracolose si inseriscono naturalmente nelle intenzioni significative di tutta l’arte cristiana delle origini, sempre tesa a trasmettere un messaggio positivo, poco incline a raccontare le storie del dolore, ma preoccupata a indicare le strade della guarigione, della speranza, della soluzione del problema, del superamento delle situazioni negative.
Questa generale atmosfera gioiosa investe anche gli episodi che vedono come protagonisti i malati, gli infermi e i sofferenti: a loro la "Bibbia figurata" riserva la soluzione finale della guarigione miracolosa, del superamento dell’imperfezione fisica, della purificazione, della salvezza, che tanto ha da condividere con l’idea soterica del Battesimo.



da: © L’Osservatore Romano 11 febbraio 2010

 

domenica 26 maggio 2013

Dalle Omelie sui salmi di Asterio di Amasea

 
 
Dalle Omelie sui salmi di Asterio vescovo di Amasea

 

Oggi la Chiesa, l’erede, è esultante. Il suo Sposo, il Cristo Gesù, che soffrì, è risuscitato. Lei aveva pianto l’uomo dei dolori, ora festeggia il vivente. L’erede è nella gioia, il popolo della vecchia alleanza è coperto di confusione per averlo messo a morte; ha così perduto l’eredità. Lo Sposo è risorto e il giudeo, l’avversario della sposa, è stato sgominato. Perché? Aveva cercato di cancellare la risurrezione affermando: “I discepoli hanno sottratto il Signore” (Mt 28, 13). Ma se questi l’avessero prelevato dal sepolcro, come avrebbero potuto nel suo nome guarire il paralitico? Un morto non rialza uno storpio. Un morto non restituisce l’uso delle gambe, un morto non insegna a camminare. Uno non dà agli altri quello che lui stesso non possiede. Lo Sposo è risorto e, come gli avvocati in tribunale, i santi profeti ed apostoli si accostano a lui per raccogliere nella Chiesa l’eredità promessa.

Rallegrati, o Chiesa, sposa di Cristo! La risurrezione dello Sposo ti ha rialzata dal suolo dove i passanti ti calpestavano. Gli altari dei demòni non disperdono più i tuoi figli, ma i templi di Cristo accolgono i neobattezzati. La tirannia degli idoli ormai è cessata, trionfano gli altari di Cristo. Non siamo più convocati dai flauti per adorare la statua d’oro, ma i salmi ci insegnano a lodare Iddio. I piedi della cortigiana non danzano più sulla morte di Giovanni, i talloni della Chiesa pestano la morte.

La fede non è più rinnegata, si piega ogni ginocchio. Tacciono le grida da tragedia, sbocciano come corolle cantici nuovi. Non esalano più fumo le vittime grasse, ma sale l’incenso della preghiera. Sgozzare stupide bestie ha perso ogni senso da quando fu immolato l’agnello che toglie i peccati del mondo.

O meraviglia! L’inferno ha divorato Gesù Cristo, il nostro maestro, ma non è riuscito a inghiottirlo. Il leone ha sbranato l’agnello e il vomito l’ha torturato: la morte assorbì la vita, ma assalita dalla nausea, rigettò il suo festino. Il gigante non poté portare Cristo morto. Un gigante tremò davanti ad un cadavere. Sferrò battaglia ad un vivo, ma un morto lo vinse e lo atterrò. Se il diavolo fosse stato sconfitto da un vivente, avrebbe potuto dire: Non potei vincere Dio; ma lottò contro un vivo e dovette soccombere di fronte ad un morto; ogni scusa vien meno.

Un chicco solo fu seminato e l’universo è stato nutrito. Come uomo fu ucciso: come Dio è tornato in vita e dà la vita alla terra. Come un coccio fu fatto in pezzi, e come un gioiello agghinda la Chiesa. Come agnello fu sgozzato e come pastore disperse la mandria dei demoni, col bastone della croce. Come cero sul candeliere, in croce si spense, ma come sole s’è destato dal sepolcro.

Abbiamo visto compiersi due prodigi: il giorno si oscurò, quando fu crocifisso Cristo, e quando egli risorse la notte brillò come il giorno. Perché il giorno si ottenebrò? Perché sta scritto. “Si avvolgeva di tenebre come di velo” (Ps 17,12). Perché la notte ebbe lo splendore del giorno? Perché il profeta diceva: “Nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno” (Ps 138,12). O notte, più luminosa del giorno! O notte più risplendente del sole. O notte, più candida della neve, più lucente delle nostre torce, più dolce del paradiso. O notte che non conosce tenebre, tu scacci ogni torpore e ci fai vegliare insieme con gli angeli. O notte, spavento dei demoni, notte di Pasqua, attesa durante un anno intero! Notte nuziale della Chiesa, che fai nascere i nuovi battezzati e spogli il demonio addormentato. Notte in cui l’erede introduce gli eredi nell’eredità! Fino alla fine dei tempi per colei che ha conseguito di ereditare.

 

sabato 25 maggio 2013

Quarta domenica di Pasqua (del Paralitico)





Quarta domenica di Pasqua (del Paralitico)

 

La quarta Domenica di Pasqua, chiamata Domenica del Paralitico, celebra il Salvatore che ha sconfitto la morte e che fa dono al paralitico di Betzaetà della sua grande misericordia.

 

La lettura dell’Apostolo è tratta dagli Atti degli apostoli (9, 32-42):

In quei giorni avvenne che mentre Pietro passava da tutti, giunse anche dai fedeli che dimoravano a Lidda. Qui trovò un uomo, un tale di nome Enea, che da otto anni giaceva su un lettuccio ed era paralitico. Pietro gli disse: “Enea, Gesù Cristo ti guarisce; alzati e rifatti il letto”. E subito si alzò. Lo videro tutti gli abitanti di Lidda e del Saròn e si convertirono al Signore. A Ioppi c’era una discepola a nome Tavithà, che significa Gazzella. Essa era ricca dalle opere buone e dalle elemosine che faceva. Capitò che in quei giorni si ammalò e morì. La lavarono e la deposero nella stanza di sopra. E poiché Lidda era vicina a Ioppi i discepoli, udito che Pietro si trovava là, mandarono due uomini a pregarlo: “Non tardare a passare da noi!” Pietro si alzò e andò con loro. Appena arrivato lo condussero alla camera di sopra e gli si presentarono tutte le vedove in pianto che gli mostravano le tuniche e i mantelli che Gazzella confezionava quando era con loro. Pietro fece uscire tutti e si inginocchiò a pregare; poi rivolto al corpo disse: “Tavithà, alzati!” Ed essa aprì gli occhi, vide Pietro e si mise a sedere. Egli le diede la mano e la alzò, poi chiamò i santi e le vedove, e la presentò loro viva. La cosa fu nota in tutta Ioppi, e molti credettero nel Signore.

 

Il brano dell’Evangelo secondo Giovanni (5, 1-15):

In quel tempo era la festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. C’è a Gerusalemme, presso la Porta delle pecore, una piscina chiamata in ebraico Vithesdhà, che ha cinque portici, sotto i quali giaceva una moltitudine di infermi, ciechi, zoppi e paralitici, che aspettavano il movimento delle acque. Infatti un angelo del Signore in certi momenti scendeva nella piscina e agitava l’acqua; il primo a entrarvi dopo l’agitazione dell’acqua, guariva da qualsiasi malattia fosse affetto. Si trovava là un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù vedendolo steso e sapendo che da molto tempo stava così, gli dice: “Vuoi guarire?”. Gli rispose il malato: “Signore, non ho uomo che mi immerga nella piscina quando l’acqua viene agitata; quando vado io, un altro scende prima di me”. Gesù gli dice: “Alzati, prendi il tuo giaciglio e cammina”. E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo giaciglio, camminava. Quel giorno era un sabato. Dicevano dunque i Giudei al guarito: “È sabato e non ti è lecito prendere il tuo giaciglio”. Ma egli rispose loro: “Chi mi ha guarito mi ha detto: Prendi il tuo giaciglio e cammina”. Gli chiesero: “Chi è l’uomo che ti ha detto: Prendi il tuo giaciglio e cammina?”. Ma il guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato dalla folla che c’era in quel posto. Dopo queste cose Gesù lo trova nel tempio e gli disse: “Ecco che sei guarito; non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio”. Quell’uomo se ne andò e annunciò ai Giudei che è stato Gesù a guarirlo.

 
           

La festa a cui si allude nel brano evangelico è probabilmente la Festa delle Capanne o la Pentecoste degli Ebrei, Gesù andò a Gerusalemme, città che aveva molte porte d’ingresso. Una di esse si chiamava porta delle pecore (o porta probatica), perché da essa entravano i montoni destinati al sacrificio, è dunque la porta che conduceva al Tempio.

Vicino a questa porta, c’era una cisterna piena d’acqua, intorno a cui vi era un edificio che veniva chiamato Betzaetà, cioè casa della misericordia, e che aveva cinque portici (logge, gallerie), presso cui sostavano molti ammalati: ciechi, zoppi e paralitici che aspettavano l’agitazione dell’acqua, provocata ogni tanto da un angelo. Il primo dei malati ad entrarvi guariva da qualsiasi malattia fosse affetto.

A seguito dei restauri intrapresi sulla Chiesa di Sant’Anna in Gerusalemme nel 1888 sono stati ritrovati i resti di due grandi piscine con cinque portici. Un affresco riscoperto e situato su uno dei muri rappresenta un angelo che smuove l’acqua (e questo particolare è ricordato nel testo del Vangelo).


 
Gerusalemme, resti della piscina di Betzaetà


La guarigione del paralitico di Cafarnao, la cui pericope (Mc 2, 1-12) abbiamo letto nella seconda domenica di Quaresima, ci ricordava nel cammino penitenziale che solo Cristo può guarirci dalla nostra paralisi causata dal peccato; il miracolo di Betzaetà, che ha un orizzonte tutto pasquale, ci mostra la risoluzione sacramentale di questa nostra paralisi attraverso l’immersione nelle salutifere acque battesimali. Nel battesimo moriamo al peccato con Cristo, con Lui veniamo sepolti (l’immersione) e con Lui risuscitiamo a vita nuova (l’emersione).

Nel racconto giovanneo vi è, innanzitutto, un contrasto tra festa dei giudei che si svolge nel tempio e la moltitudine di gente sofferente. Questi sono esclusi dai festeggiamenti nel tempio. Cristo non va al tempio ma decide di andare da chi è più sofferente. Cristo si allontana da certe forme di religiosità. Chi vuole trovare Lui deve recarsi dove c’è l’umanità sofferente.

L’attenzione del narratore si concentra su uno di quei malati. La sua infermità viene definita dallo stesso termine greco che indicherà la malattia di Lazzaro (astheneia). Questa parola non è usata da Giovanni in nessun altro caso.

Scrive sant’Agostino “Il quaranta è un numero sacro, simbolo di perfezione. Mosè digiunò quaranta giorni, così Elia, così Gesù. Due sono i precetti della carità che il Signore raccomanda: amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e amerai il prossimo tuo come te stesso. Se il numero quaranta significa perfezione della legge e se la legge non si compie se non mediante il duplice precetto della carità, ti fa meraviglia che quell’uomo fosse infermo da quaranta meno due?”.
 

 


Gesù volge lo sguardo verso l’uomo che giaceva paralizzato e prende l’iniziativa, a differenza del racconto marciano, dove l’iniziativa parte dagli amici del paralitico.

L’uomo infermo è affetto da un duplice handicap: da una parte è malato da tanto tempo e ciò fa supporre che la sua malattia fosse incurabile, dall’altra non può approfittare dell’efficacia dell’acqua. È significativo che Gesù, sapendo che da trentotto anni giaceva paralizzato presso la piscina gli abbia chiesto: “Vuoi guarire?”. Questa domanda può essere intesa come un invito ad abbandonare il precedente stile di vita, o anche può sottolineare la necessità di un’adesione consapevole della persona all’opera di guarigione. Quest’uomo vuole cambiare la propria condizione ma è impossibilitato a farlo. Pur vivendo immobilizzato da trentotto anni, non aveva perso la speranza nella guarigione. Però il malato risponde riferendosi all’unica speranza che egli conosce: l’agitazione delle acque nella piscina, unitamente all’attesa di qualcuno che l’aiuti a calarsi dentro. Queste aspettative però sono state deluse da tempo perché non ha nessuno che lo immerga nella piscina. È il più povero tra i poveri! Si sottolinea la sua solitudine, la sua rassegnazione tanto che la gente si disinteressa di lui.


 


L’acqua della piscina sembra assumere un significato simile al pozzo di Giacobbe dove Gesù incontra la Samaritana (pericope della quinta domenica di pasqua). Come quell’acqua non è capace di dissetare definitivamente, così quest’acqua promette una guarigione che non si realizza mai. Il pozzo di Giacobbe e la piscina di Betzaetà sono destinati ad essere sostituiti dall’acqua viva donata da Cristo. Quest’acqua disseta e guarisce! Il paralitico toccato da Gesù ritorna ad essere padrone della propria vita. Crede, si alza e cammina. L’incontro con Gesù gli cambia radicalmente la vita: se avesse deciso di non credere sarebbe rimasto nella paralisi.

Il miracolo viene compiuto di sabato. Questo provocherà una reazione di ostilità da parte dei giudei che giudicheranno il gesto di Gesù una trasgressione del riposo sabatico. I giudei governano il popolo mettendo la legge al di sopra del bene della persona. Cristo mette la persona umana al di sopra della legge. Emerge nuovamente la differenza tra la potenza misericordiosa e miracolosa di Cristo e la religione legalista formale, persecutoria, incapace di cogliere la divinità di Gesù, di provare gioia di fronte ad un miracolo.

Se la Quaresima, dunque, ci conduceva verso la Pasqua del Signore, il cammino pasquale ci conduce verso la Pentecoste, che è l’ottava domenica di Pasqua. Lì, finalmente, Gesù stesso ci rivelerà come solo credendo in Lui potremo ricevere il Santo Spirito, così che anche da noi possano sgorgare quei fiumi di acqua viva portatori della guarigione nei confronti di chi, come noi lo siamo stati, è ancora nella paralisi; così come anticipato nella lettura degli Atti, dove l’apostolo Pietro nella guarigione del paralitico Enea e nella resurrezione di Tavithà ci ricorda che solo uniti a Cristo potremo operare quei segni che Egli stesso ci ha inviato a compiere nel suo nome, solo uniti a Cristo potremo nel deserto di questo mondo essere acqua viva che disseta.   
 



giovedì 23 maggio 2013

DONNE SANTE NELLA CHIESA ORIENTALE DEI PRIMI SECOLI

 
Ravenna, S. Apollinare Nuovo, teoria delle vergini
 

DONNE SANTE NELLA CHIESA ORIENTALE DEI PRIMI SECOLI

 

di Patrizia Solari

 

 
Preparando nei mesi scorsi la documentazione per gli ultimi santi apparsi sulla rivista, dentro di me pensavo: “Adesso però è ora che presenti di nuovo qualche donna!”

All’inizio di novembre sono stata a Venezia per vedere una mostra di miniature, manoscritti e incunaboli: “Oriente cristiano e santità”. E nel catalogo che accompagnava la mostra ho trovato un saggio, non su UNA santa, ma sulle sante dei primi secoli in Oriente. Queste notizie ci permettono di collegarci a un periodo in cui la Chiesa non era ancora divisa e di inserirci nelle riflessioni proposte nella settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Ed ecco la messe che ho raccolto.

 

Martiri, monache ascete, pie matrone, prostitute pentite, donne travestite da monaco

“Nei primi secoli del Cristianesimo, quando la Chiesa lottava per garantirsi l’esistenza a fianco delle altre religioni dell’Impero e per ottenere il riconoscimento ufficiale, i casi di santità femminile furono piuttosto numerosi. La maggior parte di questi è rappresentata da vergini martiri, uccise durante le persecuzioni dei secoli III e IV come, ad esempio, Barbara, Eufemia di Calcedonia, Caterina e Teodora di Alessandria. Con il trionfo del Cristianesimo nel IV secolo, la tipologia delle sante martiri venne sostituita da quella di un nuovo genere di sante comprendente le monache ascete, le pie matrone, le prostitute pentite e le donne travestite da monaco. (...)

Al contrario di quanto accade nel caso delle vergini martiri (talora del tutto leggendarie), la reale esistenza di molte sante monache o matrone, quali Macrina, la sorella maggiore di Gregorio di Nissa, Gorgonia, la sorella di Gregorio Nazianzeno, e di Matrona di Perge, è certa. Erano vergini o mogli e madri che condussero, però, una vita così pia ed ascetica da guadagnarsi la fama di sante. (...)

La più famosa delle prostitute pentite (...) fu Maria Egiziaca, che visse un’esperienza di conversione a Gerusalemme. In seguito essa si ritirò nel deserto della Giudea dove per quarantasette anni menò una vita da eremita, sottoponendosi a estreme privazioni e all’isolamento totale.

Anche il tema della pia donna mascherata da uomo e vissuta in un monastero maschile era estremamente diffuso nella tarda antichità. È tipico a questo proposito il caso di santa Marina/Marino, che prese l’abito da monaco per non doversi separare dal padre, intenzionato ad abbracciare la vita religiosa. Altre donne (...) indossarono l’abito monastico maschile per sfuggire ai maltrattamenti del marito o alle attenzioni di un pretendente indesiderato”.[1]

 

Bisogna rilevare che di regola, nella classificazione bizantina dei santi, mentre troviamo gli uomini raggruppati per categorie (martiri, monaci, vescovi ecc.) le sante sono riunite in un solo gruppo, il cui criterio è il sesso e possiamo osservare questa distinzione sia nelle raffigurazioni dell’arte monumentale che nella produzione letteraria. Per esempio, nel mosaico del Giudizio Universale di Santa Maria Assunta (sec. XII) a Torcello (Venezia) è raffigurato un unico gruppo di sante e tre diverse categorie di santi (soldati, monaci, vescovi). Una spiegazione di questa distinzione può essere data dal comunque esiguo numero di sante rispetto ai santi, da una parte, e dall’altra, dalla caratteristica della mentalità bizantina, che considerava la donna, per sue caratteristiche intrinseche, seriamente impedita ad accedere alla santità. A meno che non dimostri eccezionali doti di ascetismo o non assuma, nel condurre una vita estremamente pia, caratteristiche maschili: forza, virilità, fermezza ...

 

“Rispetto al periodo delle persecuzioni, il numero delle canonizzazioni femminili a Bisanzio durante la tarda antichità diminuì notevolmente. (...) Per ragioni ancora non affatto chiare, nei secoli VIII e X la santità femminile venne riconosciuta in misura assai minore che quella maschile e negli ultimi cinque secoli della vita di Bisanzio[2] solo tre donne furono elevate agli onori degli altari.

Nel VII secolo, con il passaggio dalla civiltà tardoantica a quella propriamente bizantina, ebbe luogo un importante cambiamento nella tipologia del santo donna. Le sante di Bisanzio, in questo periodo, appartengono sostanzialmente a tre categorie: le restauratrici dell’ortodossia, le sante monache e badesse e le pie matrone”. Più raramente, ma non oltre il X secolo, è ancora possibile individuare singoli casi che riprendono i modelli precedenti, come le eremite o le donne travestite da uomo.

 

 

Le restauratrici dell’ortodossia e le sante monache e badesse

“I due casi più illustri di restauratrici dell’ortodossia sono rappresentati dalle imperatrici Irene e Teodora che difesero strenuamente la causa iconodula[3] contro le forze iconoclaste. Il movimento iconoclasta raggiunse i vertici del potere negli anni compresi tra il 726 e il 787 e tra l’815 e l’842, quando la politica imperiale proibì la produzione e la venerazione delle immagini. Le due imperatrici, entrambe vedove che agivano da reggenti per i figli (troppo piccoli alla morte del padre per assumere le redini del potere), capovolsero la politica iconoclasta dei propri mariti e restituirono alla Chiesa Ortodossa il culto delle sacre icone rispettivamente nel 787 e nell’843”.

Le sante monache o badesse si distinsero, nella media età bizantina, all’interno di una comunità cenobitica. “Esse si impegnarono nella pratica dell’ascesi, sebbene in forme non così estreme come quelle praticate dalle sante romite che le avevano precedute, e ottennero grande fama per i loro atti di ubbidienza, per il "dono delle lacrime" e persino per le loro prediche”.

Una di queste fu Irene di Chrysobalaton, che nel IX-X secolo ancora molto giovane fu messa a capo di un monastero a Costantinopoli. Oltre alle pratiche di ascetismo, al dono della vista interiore e di predizione, “uno degli aspetti più singolari della sua carriera monastica (...) è rappresentato dalle prediche sulla salvezza che ella pronunciava a beneficio dei visitatori del monastero: ella non rivolgeva il suo insegnamento soltanto alle parenti, alle mogli e alle figlie dei senatori, ma anche agli uomini”.

Irene era vergine, ma il matrimonio non costituiva un ostacolo alla santità a Bisanzio: “almeno la metà delle venti donne che furono elevate all’onore degli altari tra i secoli VIII e XV era stata sposata e aveva generato figli. Il fatto che una donna entrasse in monastero dopo essere rimasta vedova costituiva a Bisanzio una prassi relativamente normale”. Un esempio di questo percorso è Teodora di Tessalonica, santa del IX secolo. “Nata ad Egina, fu costretta insieme al padre e al marito ad abbandonare l’isola egea a seguito delle incursioni arabe. La famiglia di Teodora rifugiati si sistemò a Tessalonica, dove poteva contare sull’aiuto dei parenti, tra i quali vanno annoverati un prelato altolocato e due badesse. La vita di Teodora fu, tuttavia, segnata dal dolore: due dei suoi tre figli, infatti, morirono in tenera età. Grata per la sopravvivenza della terza figlia, la donna la consacrò alla vita monastica con il nome di Teopista (“fedele a Dio”). Dopo la morte del marito, la vedova, appena venticinquenne, prese lei stessa i voti, nel cenobio consacrato a santo Stefano diretto dalla sua parente Anna. La giovane Teopista la seguì nello stesso monastero”. La vita di Teodora nel monastero fu semplice e senza fatti degni di nota. Solo tre episodi, sui quali si fonda la sua santità, vengono menzionati: il primo riguarda il rapporto con la figlia. “Teodora trovava difficile vincere il proprio sentimento materno per la figlia e non cessava di preoccuparsi circa il vestiario e la dieta di questa”. Siccome i richiami della badessa non davano frutto, essa ordinò che Teodora e Teopista dividessero la stessa cella, ma proibì loro di parlarsi. Per quindici anni le due donne pregarono, lavorarono al telaio e macinarono il grano insieme, senza scambiarsi una parola sino a quando la badessa si ricredette e concesse loro la facoltà di conversare. Teodora così, nota l’agiografo, smise di considerare Teopista sua figlia, ma prese a trattarla come una delle tante monache del monastero”. Un secondo episodio riguarda l’esercizio dell’ubbidienza: “un giorno, poiché un calderone d’acqua si era rovesciato e aveva bagnato il pavimento, ella aveva spostato il proprio letto in un luogo asciutto, senza chiedere il permesso alla badessa”. Per questa infrazione alla regola monastica “la madre superiora costrinse Teodora a trascorrere la notte nel cortile, nel bel mezzo di una tempesta di neve. Teodora accettò la punizione senza sollevare alcuna protesta e imparò la lezione della perfetta ubbidienza”. Il terzo episodio segnalato “consiste nella cura premurosa che la monaca riservò all’anziana badessa Anna, che si era dislogata il femore e aveva perso il senno a causa dell’età. Nonostante l’ingratitudine e le ingiurie della badessa, Teodora la soccorreva in ogni cosa (...)”. Alla morte di Teodora iniziò la venerazione della sua persona, accadde una serie di guarigioni e di fatti portentosi, come ad esempio l’olio con poteri miracolosi che cominciò a sgorgare dalla lampada che bruciava sopra la sua tomba.

 

Le sante madri di famiglia e la carità per i poveri.

“(...) nel corso dei secoli IX e X emerge una nuova tipologia di santa, quella della madre di famiglia che conquista la santità senza mai abbracciare lo stato monastico”. Malgrado il numero ristretto di esempi, ciò segnala un’evoluzione nella definizione dei criteri di discernimento della santità. “Teocleto, che visse al tempo dell’imperatore Teofilo, era rinomata per lo studio delle Scritture, la generosità delle elemosine e la solerzia nella cura della famiglia e dei domestici. Teofano, la prima moglie dell’imperatore Leone VI (886-912) e madre di una figlia, era ben nota per l’impegno profuso nelle attività di tipo caritatevole.

Le sante vite di Maria la Giovane e di Tomaide di Lesbo presentano un ulteriore elemento caratterizzante, consistente nei maltrattamenti che esse subirono da parte dei mariti, mal disposti ad accettare le loro pratiche devote e caritatevoli.

Maria la Giovane, morta nel 903, fu madre di quattro figli, di cui solo due raggiunsero l’età adulta. “Godeva grande fama per il suo ascetismo, per le sue opere di carità e per l’umanità con la quale trattava gli schiavi domestici (...). Mostrava il suo amore verso il prossimo pagando le tasse arretrate dei suoi concittadini, offrendo ospitalità ai monaci di passaggio, soccorrendo le vedove e gli orfani. Il marito Niceforo riteneva che la filantropia della moglie fosse eccessiva e accusò questa di sperperare il patrimonio familiare. In effetti, Maria spese per le sue donazioni esclusivamente il patrimonio della sua eredità. Niceforo mal interpretò, inoltre, la gentilezza che la moglie mostrava verso gli schiavi e l’accusò di adulterio; la rinchiuse nella propria stanza e un giorno, in preda all’ira, la prese a frustate in maniera selvaggia. Maria cercò di schivare i colpi del marito, ma inciampò, cadde e si ferì mortalmente alla testa”. Dopo la sua morte “accaddero numerosi miracoli e il suo culto crebbe, anche grazie agli sforzi promozionali del marito e dei due figli. Col passare del tempo, Niceforo si rese conto di aver maltrattato la moglie e cercò di redimersi onorandone la memoria”.

 

Tomaide di Lesbo non aveva figli, apparteneva a una classe sociale inferiore a quella di Maria e viveva a Costantinopoli. “Tesseva e vendeva la stoffa che produceva per trovare i soldi da donare ai poveri, distribuiva i suoi stessi vestiti ai mendicanti, dava cibo agli orfani e prestava soldi ai debitori. Stefano, suo marito, era più violento di quello di Maria e la picchiò senza pietà per tredici anni, infuriato per i suoi ‘sperperi’. Quando Tomaide morì a 38 anni in seguito alle percosse del marito, la salma venne sepolta nel monastero guidato da sua madre, dove si andò organizzando un culto attorno alla sua tomba. A differenza di Maria, Tomaide compì numerosi miracoli in vita (...). Queste guarigioni prodigiose continuarono ad avere luogo anche dopo la morte di Tomaide: i pellegrini che si recavano alla sua tomba, infatti riuscivano a liberarsi dalle proprie afflizioni”.

 

Possiamo concludere con le seguenti osservazioni.

“Qualsiasi trattazione della santità femminile a Bisanzio deve sottolineare il fatto che i santi -uomini e donne- canonizzati nei secoli dell’era bizantina non godettero mai una devozione popolare paragonabile a quella che conobbero, invece, i primi santi dell’era cristiana. A giudicare dal numero di manoscritti delle Vite tramandati e dalla frequenza delle loro rappresentazioni nella decorazione monumentale delle chiese, nelle icone e nei sigilli, le sante più popolari dell’era bizantina furono quelle dei primi secoli del Cristianesimo: le martiri, le monache travestite e le prostitute pentite.

Le donne canonizzate successivamente, durante la media e tarda età bizantina, non furono mai oggetto di un culto pienamente sviluppato. La loro venerazione, promossa principalmente dai familiari, rimase locale e fu, in genere, di breve durata”.

 

Si può d’altra parte osservare che “le Vite di quelle poche donne che furono elevate agli onori degli altari risultano particolarmente interessanti poiché aprono uno squarcio sull’atteggiamento bizantino nei confronti dello ‘status’ femminile. Inoltre, questi testi sono ricchi di informazioni circa l’organizzazione domestica a Bisanzio, la vita spirituale delle donne laiche, la vita difficile delle mogli ingiuriate da mariti violenti, la ‘routine’ quotidiana dei monasteri e lo sviluppo dei culti popolari. Le attuali conoscenze sulla vita quotidiana delle donne bizantine sarebbe di gran lunga più scarsa senza l’ausilio di queste biografie sacre che, per così dire, aprono uno spiraglio sulla vita del chiostro e delle case della gente comune”.

 

dal sito: http://www.caritas-ticino.ch/Riviste/elenco%20riviste/riv_9901/21-donne%20sante.htm



[1] Le citazioni sono tratte da TALBOT, Alice-Mary - Essere donna e santa, Catalogo della mostra “Oriente Cristiano e Santità”, Ed. Centro Tibaldi, Milano-Roma, 1998 - pagg. 61-68.
[2] Civiltà bizantina: si estende grosso modo tra il VI (caduta dell’Impero Romano d’Occidente) e il XVI secolo (invasione turca), nell’area geografica che va dal Mediterraneo fino agli Urali, con influssi in Spagna e Italia. Capitale dell’impero fu Bisanzio (Costantinopoli). Per una trattazione estesa vedi KAZHDAN, Alexander “Bisanzio e la sua civiltà”, Ed. Laterza, 1995
[3] Iconodulo: opposto a iconoclasta (= che combatte la venerazione delle immagini sacre)